Record della povertà, salari fermi, crolla il potere di acquisto, cresce il lavoro povero. La realtà parallela che il governo Meloni prova, inutilmente, a costruire da un anno e mezzo ieri è stata smontata dalla pubblicazione del rapporto annuale 2024 dell’Istat. Nel silenzio di quasi tutti gli esponenti dell’esecutivo e della maggioranza, di solito loquaci quando si tratta di equivocare e non capire i dati sull’occupazione, ieri è stato messo nero su bianco che la povertà assoluta ha raggiunto livelli mai visti da dieci anni a questa parte. Cinque milioni e 752 mila persone hanno gravissime difficoltà economiche, sociali, personali e 1,3 milioni di minorenni sono in grave deprivazione materiale e sociale.

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DIECI ANNI FA, nel 2014, erano state calcolate poco più di 4 milioni di persone in questa condizione. I dati non colgono ancora in pieno gli effetti della decisione, presa tra maggio e dicembre 2023, dal governo di restringere l’accesso all’«assegno di inclusione» e al «supporto lavoro e formazione» che hanno sostituito il «reddito di cittadinanza». Per questo, l’anno prossimo, i dati saranno peggiori. E sarà tutta farina del sacco di Meloni & Co.

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NONOSTANTE IL BUON andamento del «mercato del lavoro» che ha registrato tra il 2022 e il 2023 un aumento dell’1,8% in entrambi gli anni, sono cresciuti contemporaneamente i lavoratori poveri («working poors»), quelli che sono in «povertà relativa», soprattutto nei settori «di punta» di un’economia ormai basata su ristorazione, turismo e servizi poveri. In questa cornice l’incidenza della povertà assoluta tra gli occupati è aumentata dal 4,9% nel 2014 al 7,6% del 2023. Non essendo cambiato strutturalmente il mercato del lavoro, e tanto meno il Jobs Act di Renzi e del Pd ( la Cgil si propone di abolire con un referendum), è certo che questa condizione sia cresciuta anche tra chi è stato assunto nell’ultimo anno. In più l’Istat sostiene che è «povero», ad esempio, il 14% degli operai rispetto al 9% registrato nel 2014. Quest’altro numero, tradotto nella realtà, significa che il reddito da lavoro non è più in grado di proteggere le persone e il loro nucleo familiare da un grave disagio economico e sociale. A questo si aggiunge il ricorso al lavoro part-time involontario, le più colpite sono le donne, in particolare quelle più giovani. È un fenomeno macroscopico, soprattutto al Sud. Già nel 2022 era del 57,9 per cento in Italia, il 50,8 in Spagna, il 25,9 in Francia, il 6,1 per cento in Germania.

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LA PAROLA DEFINITIVA è stata messa sulle misure caricaturali del governo Meloni contro la super-inflazione. Non occorrerebbe, dato che lo stesso esecutivo se ne è vergognato e non le ha rinnovate. Ma è utile vedere i dati che arrivano fino a dicembre 2023, quando è scaduto il «carrello tricolore anti-inflazione». Il lavoro si è impoverito ulteriormente perché il potere di acquisto dei salari non è stato sostenuto dai dovuti aumenti contrattuali cospicui e tempestivi. I dati sono impressionanti: le retribuzioni contrattuali orarie, nel biennio 2021-2023, sono aumentate del 4,7% mentre l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (Ipca) del 17,3%. Un abisso. Da ottobre 2023 le retribuzioni sono aumentate, ma solo perché l’inflazione è diminuita. Una tendenza confermata nel primo trimestre del 2024. Ciò ha penalizzato le famiglie più povere, le hanno indotte a intaccare i risparmi e a spendere di più per casa, acqua, elettricità, gas, cibo.

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ALTRA QUESTIONE è la produttività del lavoro. In volume, il Prodotto interno lordo (Pil) per ora lavorata in Italia è cresciuto di solo l’1,3 per cento tra 2007 e 2023, contro il 3,6 per cento in Francia, il 10,5 in Germania e il 15,2 per cento in Spagna. «La stagnazione della produttività del lavoro è uno degli elementi che ha caratterizzato il debole andamento del Pil negli ultimi vent’anni e il conseguente allargamento del divario di crescita con le altre principali economie dell’Ue» ha commentato l’Istat. In 15 anni tale divario è aumentato di oltre 10 punti rispetto alla Spagna, 14 alla Francia, 17 alla Germania. Rispetto al 2019 il Pil nominale è cresciuto del 4,2%, più rapidamente delle maggiori economie Ue ma il divario con la crescita di quello reale resta ampia.

NON TUTTO, ovviamente, è farina del sacco del governo Meloni. Ma come gli altri, dal 1991 a oggi, anch’esso è l’espressione organica di una politica di classe che ha imposto la più violenta repressione salariale nei paesi Ocse. Negli ultimi trent’anni i salari reali in Italia sono rimasti fermi con una crescita simbolica dell’1% a fronte del 32,5% registrato in media nell’area Ocse. Considerata il drastico cambio di congiuntura politico-economica, con l’austerità di ritorno e una procedura di infrazione per deficit eccessivo incombente, Meloni & Co. dimostreranno che la loro esistenza dipende dalla conservazione di questo stato di cose. È il marchio di fabbrica del capitalismo straccione italiano. E lo è della politica che, in mancanza di lotte, si conforma ad esso. La storia, in fondo, sta tutta qui.