Cosa c’è davvero in gioco intono al «reddito di cittadinanza» e alla sua penosa storia nel nostro paese? Non una questione di politica economica, di bilancio, di conti. Nemmeno il confronto tra diverse concezioni più o meno ostili all’estensione del Welfare.

Di teoria politica, poi, neanche a parlarne. Ad alimentare la crociata, ormai vittoriosa, contro il reddito di base (i suoi prudentissimi fautori si preoccuparono a suo tempo più delle controindicazioni che dei vantaggi) restano tre fattori: l’ideologia, l’anima corporativa della politica economica della destra e lo storico conflitto tra capitale e lavoro, il quale non riguarda più solo quello salariato nelle fabbriche e negli uffici e neanche, necessariamente, il lavoro riconosciuto e certificato come tale, essendosi trasferito su un ben più vasto terreno.

L’IDEOLOGIA RUOTA, in negativo intorno all’invenzione di innumerevoli lazzaroni e profittatori, nonché al timore di classi popolari inclini alla truffa e al raggiro, da propinare a un’opinione pubblica frustrata e risentita. E, in positivo, intorno alle classiche apologie del lavoro, indipendentemente dalla sua qualità e dalle aspirazioni dei singoli. Affiancate poi dai più suadenti appelli a farsi impresa e sgomitare nell’arena della competitività.

NELLA CULTURA della destra ogni forma di universalismo è da sempre aliena e demoniaca. E così anche il Welfare di impianto socialdemocratico, che un’aspirazione universalistica ad ogni buon conto la incarna. Per la destra il sostegno statale viene preferibilmente indirizzato verso determinate categorie o gruppi sociali, secondo una logica classicamente corporativa. E anche quando ci si rivolge ai poveri o ai lavoratori poveri in generale numerose divisioni e partizioni più o meno esplicite attraversano questa categoria, escludendo per via burocratica situazioni di vera e propria indigenza e includendone altre politicamente appetibili.

QUESTA IMPOSTAZIONE, quella dei bonus, delle regalie una tantum e degli incentivi settoriali, per intenderci, mira a produrre «debiti di riconoscenza» a legare a sé determinati gruppi sociali o categorie professionali per assicurarsene il consenso politico (Roberto Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie).
Risulta evidente come il «reddito di cittadinanza», sia pure ben lontano, nella versione nostrana, da qualsiasi dimensione universalistica, per il solo fatto di essere vissuto come un diritto piuttosto che come la magnanima concessione di un potere sovrano, contraddice pienamente la versione assistenzialistica della destra.

Veniamo al terzo fattore, che poi è quello sostanziale e decisivo. I datori di lavoro avversano risolutamente, con l’altrettanto risoluto sostegno dell’attuale governo, qualsiasi misura indebolisca il loro potere di ricatto sul lavoro. In altre parole, qualunque alternativa alle condizioni miserabili imposte dall’offerta è considerata un attentato al sistema delle imprese. Molto esplicitamente fu immediatamente chiarito, a cominciare dai settori a maggior sfruttamento, che il «reddito di cittadinanza» riduceva il bacino di disperati a cui attingere lavoro effimero e indecentemente sottopagato.

L’ATTUALE GUERRA di posizione intorno al salario minimo chiarisce definitivamente che la posta in gioco è la ricattabilità del lavoro e il rifiuto di qualunque strumento legislativo che possa anche minimamente intaccarla. Al culmine dell’improntitudine, il Cnel, ancillare istituto pubblico di ricerca che ha sostenuto gli argomenti governativi contro il salario minimo, offre lavoro gratuito a giovani studiosi e ricercatori. Il lavoro gratuito è, del resto, a fianco di quello precario e sottopagato, il pilastro che sostiene interi settori pubblici e privati, profitti e spending review.

UNA FITTA RETE di attività che il «reddito di cittadinanza» avrebbe dovuto, almeno in parte, sostenere economicamente sottraendole a una condizione molto vicina ai rapporti servili. Ma così sarebbe stato riconosciuto un diritto generale e il potere dei datori, pardon dei padroni, ne avrebbe risentito.