«Clubby» è stato il termine con cui una editorialista del «Los Angeles Times» ha descritto il monologo di apertura di Jimmy Kimmel, all’inizio della serata di premiazione. Un aggettivo che evoca sia un fattore di esclusività che un’idea di spontanea, elegante socievolezza, clubby è effettivamente il modo migliore di definire l’intera presentazione del novantaseiesimo Oscar.

SI È TRATTATO di un Academy Award senza sorprese dal punto di vista di vincitori e vinti, impacchettato in una cerimonia ben scritta, efficiente, priva di rischi, articolata sullo sfondo di una bella scenografia dinamica; e che nella sua combinazione di buon gusto e buon senso ha evitato di scivolare sia in un eccesso di autoreferenzialità che in quelle disastrose dimostrazioni di superiorità morale che rendono l’élite hollywoodiana ancor più detestabile agli occhi della red America. Certo, di un’élite sempre di tratta, quindi è per natura un po’ «out of touch». Meglio farne tesoro che pretendere diversamente. E se Barbenheimer ha fatto sì che, quest’anno, non si potesse dire che la discrepanza tra i film nominati e il botteghino fosse troppo forte (e ha segnalato un rinnovato interesse per il cinema in sala) starà ai ratings della serata il compito di rivelare se l’Academy è riuscita ad arginare il crollo degli ascolti che ha segnato le ultime edizioni.

La redazione consiglia:
«Oppenheimer», il Novecento dell’America prometeicaCon sette statuette – tra cui quelle «importanti» di miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista e migliore attore non protagonista, Oppenheimer ha portato a Christopher Nolan il riconoscimento che voleva da anni (come ha detto anche sua moglie e la produttrice dei suoi film, Emma Thomas, nel ringraziamento). E a Hollywood un vincitore che combina spettacolo a grande budget, favore critico e box office. Alla fine, l’irlandese Cillian Murphy (che ha dedicato il suo Oscar in nome della pace) ha trionfato nella categoria di miglior attore sull’altro grande favorito, Paul Giamatti, nominato per The Holdovers (nello stesso film, Da’ Vine Joy Randolph ha vinto come miglior non protagonista).

E l’interpretazione discretamente sfumata di Lily Gladstone in Killers of the Flower Moon non è riuscita ad avere la meglio su quella spericolatamente originale di Emma Stone in Povere creature. Il film di Yorgos Lanthimos è stato l’altro grande vincitore della serata, con Oscar aggiuntivi per i costumi, la scenografia e il make-up. Lo squarcio nel vestito verde acqua di Stone ha contribuito a uno dei pochi momenti unscripted delle celebrazioni. «Deve essere successo durante I’m Just Ken» si è giustificata lei citando il numero musicale dalla canzone di Barbie, mentre Charlize Theron e Jennifer Lawrence sul palco si affannavano per aiutarla con lo squarcio.

La redazione consiglia:
«Poor Things», amore senza pregiudiziCon quel numero, Ryan Gosling (a cui Robert Downey Jr ha strappato l’Oscar di miglior attore non protagonista), abbigliato in paillette rosa shocking e circondato da una schiera di ballerini, ha fatto esplodere la sala tra canti e applausi. Ma è stata però un’altra canzone dal film di Greta Gerwig a vincere la statuetta – What Was I Made For?, cantata da Billie Ellish e realizzata insieme a FINNEAS. A Miyazaki, assente, è andato l’Oscar di miglior film d’animazione, con Il ragazzo e l’airone, un inaspettato successo del botteghino Usa, come anche, sempre dal Giappone, Godzilla Minus One, che ha vinto l’Oscar per i migliori effetti speciali.

Come anticipato, La zona d’interesse ha conquistato l’Oscar di miglior film internazionale («straniero» non si dice più), insieme a quello per il miglior sonoro. Il suo regista, Jonathan Glazer, accettando il premio, è stato quasi l’unico a citare esplicitamente l’attuale situazione geopolitica, con particolare riferimento alle vittime del 7 ottobre e a quelle dell’occupazione di Gaza: «Il film è stato pensato per farci riflettere su cosa stiamo facendo adesso, non su cosa abbiamo fatto allora. Volevamo mostrare le peggiori conseguenze della disumanizzazione».

Jonathan Glazer
Siamo qui come uomini che rifiutano che la loro ebraicità e l’Olocausto siano dirottati altrove, che rifiutano una occupazione che ha portato alla guerraNEL DISCORSO d’accettazione il regista sembra far riferimento in maniera particolare all’occupazione come causa del conflitto odierno: «Siamo qui come uomini che rifiutano che la loro ebraicità e l’Olocausto siano dirottati altrove, che rifiutano una occupazione che ha portato alla guerra per tante persone innocenti, sia che siano le vittime del 7 ottobre o dell’attacco in corso a Gaza» ha dichiarato. Sono state tante poi le star che hanno sfilato sul red carpet con una spilletta rossa per chiedere il cessate il fuoco (è la campagna di Artists4Ceasefire): tra loro fli attori Mark Ruffalo e Ramy Youssef, Billie Eilish e il fratello Finneas, i registi Ava Duvernay e Daniel Scheinert.

L’ALTRA GUERRA in corso, quella in Ucraina, è il soggetto del documentario vincitore della statuetta, 20 Days In Mariupol – «Mi dispiace dirlo: è un film che avrei preferito non fare» ha affermato il regista/giornalista Mtyslav Chernov.

La redazione consiglia:
«La zona di interesse», il crimine assoluto dell’indifferenzaA parte questi interventi più diretti, la presenza della politica è stata dosata con molto parsimonia – Alexei Navalny (in un clip del documentario che vinse l’Oscar 2023) è apparso in testa al tradizionale montage «in memoriam». Nonostante Kimmel avesse inserito nel suo monologo iniziale una frecciatina alla senatrice Katie Britt (responsabile del contro discorso repubblicano allo stato dell’Unione di Biden), l’intera serata è miracolosamente risparmiata da ogni menzione di Trump. Fino ai momenti finali quando l’ex presidente si è inserito «a forza» con la sua recensione della cerimonia, via Twitter. Ovviamente molto negativa.