Jonathan Glazer ci trascina in un posto inquietante, La zona di interesse, non prima di avere aperto il suo film sul buio, spezzato solo da sonorità a tratti agghiaccianti e all’inizio inspiegabili. Già, perché bisogna attraversare il buio più profondo e oscuro prima di addentrarci nella storia che sta per raccontare, quella della famiglia Höss. Rudolf Höss, SS che nel 1940 viene nominato responsabile di un campo di concentramento in Polonia, presso la cittadina di Oswiecim, chiamata dai tedeschi Auschwitz. Ci sono solo degli edifici che erano caserme un po’ diroccate dell’esercito polacco. In pochi mesi il campo di concentramento sotto l’efficiente comando di Höss si trasforma e Himmler stesso si complimenta e lo invita all’ampliamento con Auschwitz 2, Birkenau. Ormai non si tratta più di campo di prigionia, ma di campo di sterminio. E qui parte il racconto del film (liberamente tratto dal romanzo di Martin Amis) che ci porta nella residenza della famiglia, proprio accanto al luogo di lavoro di papà, separata solo da un muro.

CINQUE FIGLI, la moglie Hedwig figlia di una domestica, orgogliosa del successo del marito e delle regalie che ottiene dal suo ruolo. Con le amiche scherza, lei dice che pellicce e altre cose vengono dal Canada, loro non capiscono che il termine canada sta a indicare il luogo in cui venivano accumulati e smistati i beni rubati ai prigionieri. Anche i bimbi giocano felici, talvolta con reperti macabri come i denti d’oro strappati agli internati. Tutto è solare e luminoso, i fiori vengono amorevolmente coltivati, è stata realizzata una piccola piscina, nei fine settimana si va sul fiume in canoa e a fare il bagno. Nulla può interferire con l’ariana serenità degli Höss, eppure oltre quel muro regna l’orrore che non ci viene mai mostrato, solo la ciminiera che in lontananza sputa fiamme e fumo, qualche urlo, qualche latrato, qualche sparo. Solo la mamma di lei, venuta a fare visita, ha un sussulto notturno quando intravede qual camino e forse si rende conto di quell’odore che pervade l’aria decidendo di andarsene il più presto e il più lontano possibile.

LA ZONA di interesse è tutta lì, un’area che circonda l’orrore come se non esistesse, come se fosse normale sterminare ebrei, rom, gay, oppositori, ottimizzando al massimo l’efficienza, inventando l’uso dello Zyclon B per uccidere il maggior numero di esseri umani nel minor tempo possibile, un servizio personale reso da Rudolf al suo gran capo Adolf. E quando la burocrazia nazista decide di mandare Rudolf verso un’altra destinazione Hedwig non vuole saperne, lei intende rimanere lì, nella sua reggia dove poi il marito tornerà per sovrintendere l’Aktion, l’eliminazione degli ebrei ungheresi nel 1944. La zona di interesse è un viaggio nella casa degli orrori dove regna l’indifferenza più totale verso quello che si sta consumando pochi metri più in là. In fondo è questo che Glazer ci vuole raccontare: è l’indifferenza il vero crimine. Un’indifferenza che ha contagiato tutti quelli che hanno lasciato fare. Cinque figli, la moglie Hedwig figlia di una domestica, orgogliosa del successo del marito e delle regalie che ottiene dal suo ruolo.

CERTO qui il capofamiglia ha un ruolo attivo (finirà condannato e impiccato in Polonia nel 1947 ), ma è il modo in cui si lasciano gli stivali per farli lucidare, il giro serale per spegnere le luci che lasciano il segno, perché di quel che succede oltre quel muro sappiamo e abbiamo visto tutto aldilà di negazionismi e revisionismi della storia. Per riproporre credibilmente la vita quotidiana Glazer ha utilizzato la vera residenza Höss, con macchine da presa disseminate ovunque e controllate a distanza, per restituire un valore di maggior credibilità al suo racconto, ma ha anche voluto mostrare Auschwitz oggi, con le montagne di scarpe, occhiali, capelli e tutto quanto era appartenuto ai milioni di esseri umani vittime della Shoah e laggiù sterminati. La zona di interesse è una fiction che crea disagio autentico. Come è giusto che sia.