Primo: alle 00.00 di domenica 26 febbraio l’unità della guardia di finanza (GdF) che cercava il caicco torna in porto. Per «un rabocco di carburante» e perché stima che ai migranti servano sette ore per l’ingresso nelle acque territoriali, il «presupposto per l’esercizio delle funzioni di polizia».

Secondo: alle 3.30 due unità della GdF sono costrette a rientrare dalle «pessime condizioni del mare». Diciotto minuti più tardi chiamano la guardia costiera (Gc) di Reggio Calabria ma non aggiungono «eventuali criticità».

Terzo: alle 3.55 la GdF di Vibo Valentia contatta i colleghi di Catanzaro e Crotone, carabinieri e polizia e chiede l’invio di pattuglie via terra. Specifica che le navi non hanno trovato il natante, «non può essere raggiunto a causa delle condizioni del mare».

Quarto: intorno alle 4.00 al 112 arriva una richiesta di aiuto da un numero internazionale. L’informazione è trasmessa alla Gc di Crotone. «Qui si concretizza per la prima volta l’esigenza del soccorso per le autorità italiane», dice Matteo Piantedosi.

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I quattro punti sono i passaggi chiave dell’informativa sulla strage di Cutro tenuta ieri in parlamento dal ministro dell’Interno. Secondo il quale è tutto chiaro: la colpa è degli scafisti e della loro virata sottocosta per sfuggire a eventuali controlli.

Con la sua relazione avrebbe voluto dissipare i dubbi sui mancati soccorsi, ma ha confermato i peggiori sospetti: l’arrivo del caicco è stato ritenuto una questione di polizia fino al naufragio.

Per due motivi: il mezzo non era considerato in pericolo imminente; non ha chiesto aiuto. Nella migliore delle ipotesi sarebbe rimasto abbandonato per sette ore. Nonostante Frontex avesse comunicato che a bordo si intuivano molte persone e nessuna misura di sicurezza. Neanche dopo che due navi della GdF sono finite in difficoltà per il maltempo o quando si è capito che il barcone non era avvicinabile a causa del mare si è riqualificata l’operazione in ricerca e soccorso (Sar). Tanto che le squadre sono partite prima via terra.

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È solo con la telefonata al 112 che la palla passa alla Gc. Piantedosi lo dice con apparente tranquillità perché forse non si rende conto che sta confermando che il Viminale interpreta illegalmente il concetto di «pericolo». Alla faccia della convenzione di Amburgo (1979), del regolamento Frontex (2014) e del piano marittimo nazionale Sar (2021). Norme che dispongono con chiarezza l’attenta verifica di ogni situazione di rischio, anche solo potenziale. Che differenziano tre fasi Sar, in base ai gradi di pericolosità. Che esplicitano come le valutazioni debbano sempre eccedere per prudenza.

Da quello che dice Piantedosi, invece, si capisce che il ministero dell’Interno ritiene esista solo la terza fase Sar – tecnicamente chiamata distress, cioè il pericolo imminente – e che per avviare un soccorso sia necessaria una richiesta esplicita. Se questa interpretazione distorta di leggi e trattati viene decantata con simile tranquillità è perché evidentemente riflette una prassi ben consolidata. Che però stavolta è finita in strage.

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Ieri le opposizioni hanno attaccato ministro e governo, ma farebbero bene a guardare anche nel proprio orto.

Non tanto perché caccia alle Ong, finanziamenti ai libici e pressioni sulla Gc italiana sono targati Minniti-Gentiloni (Pd). Neanche perché Conte durante il governo gialloverde ha sventolato i decreti sicurezza e avviato il tavolo tecnico sull’immigrazione che amplia le competenze del Viminale sul Sar (ovviamente solo quando in pericolo sono i migranti). Ma perché Pd e 5S avevano formato un governo all’insegna della «discontinuità sulle politiche migratorie» che avrebbe dovuto strappare i decreti salviniani e restituire le competenze alla Gc. Non è successo. Tanto meno ci hanno pensato i «migliori» di Draghi.

In questa storia le responsabilità, del naufragio in mare come delle decisioni politiche a terra, non si escludono. Si sommano.