Oltre a essere il più grande cimitero del mondo il Mediterraneo è diventato negli ultimi anni anche un «buco nero» per l’informazione. Almeno dal 2016 le autorità stringono sempre di più il riserbo su quanto accade in mare. Chi sa non parla, temendo ritorsioni. Per questo i processi sui naufragi e quelli contro le Ong sono occasioni per capire procedure e catene decisionali del sistema di soccorso. L’avvocato Arturo Salerni ha preso parte a due dei più importanti procedimenti in questo ambito: quello sul caso Open Arms contro l’ex ministro dell’Interno, e attuale titolare delle Infrastrutture, Matteo Salvini; quello sulla «strage dei bambini» dell’11 ottobre 2013 contro un ufficiale della marina e uno della guardia costiera. Nel primo difende l’Ong, nel secondo era il legale delle parti civili.

Anche nel processo Salvini, come in queste ore sul naufragio di Steccato di Cutro, si discute della classificazione di un evento di ricerca e soccorso (Sar)?

Sì, noi e la procura di Palermo sosteniamo che un caso Sar inizi appena si avvista un’imbarcazione in pericolo. Cioè ogni imbarcazione instabile, sovraffollata, che naviga in condizioni di mare difficili. La difesa di Salvini, invece, tenta di spostare l’inizio dell’evento Sar al momento di distress, cioè di pericolo imminente. Ma è un’interpretazione che non ha alcun appiglio sotto il profilo normativo della convenzione Sar e delle sue norme applicative. Anche perché cozzerebbe con la logica: devo agire per evitare un naufragio, non muovermi quando è già avvenuto.

Durante le udienze Open Arms è stata accusata di aver realizzato un soccorso senza che il barcone fosse in pericolo.

Un testimone del ministero dell’Interno ha reso noto che c’era un sommergibile che filmava la prima operazione di salvataggio della nave. La procura ha dato incarico ad alcuni consulenti di stabilire se fosse in una situazione di pericolo. Questi hanno risposto che da nessun porto italiano sarebbe stato permesso a una barca come quella, stracarica di persone, di partire. Quindi sì, era in pericolo anche se non era imminente il naufragio. Per questo come collegio difensivo abbiamo denunciato l’equipaggio del sottomarino: doveva intervenire invece di fermarsi a fare i video in attesa che arrivassero i soccorritori. In mare la tutela della vita umana deve prevalere su ogni altra considerazione. Secondo noi c’è stata un’omissione di soccorso.

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Il naufragio a processo

Andiamo al naufragio dell’11 ottobre 2013 che causò quasi 300 morti tra cui molti bambini. Lì il rimpallo di responsabilità è stato tra marina e guardia costiera italiane e autorità maltesi. Nella sentenza il giudice parla di «incauta inerzia» e «doloso attendismo».

In quel caso il problema è stato che le due autorità Sar coinvolte, italiana e maltese, avevano il dovere di cooperare lealmente. Ma a La Valletta, che aveva assunto il coordinamento, non sono state date tutte le informazioni. Per esempio nascondendo che la nave militare italiana Libra era vicina al barcone. Il giudice ha stabilito che non poteva condannare per l’intervenuta prescrizione, ma anche che non poteva assolvere perché c’erano tutti gli elementi da cui emergono le responsabilità. Responsabilità concorrenti tra marina militare e guardia costiera. Sono fatti che appartengono a un’epoca diversa, prima di Mare Nostrum che nacque proprio dopo quella strage, ma è stabilito chiaramente che tutti gli strumenti per il soccorso devono essere attivati.

In quel caso è stato facile accertare le responsabilità istituzionali?

Non è mai facile. Anzi lì si è arrivati alla prescrizione perché la procura non voleva si tenesse il processo. Ha chiesto due volte l’archiviazione e due volte ci siamo dovuti opporre. Alla fine i giudici hanno disposto l’imputazione coattiva. Non ce l’abbiamo fatta a chiudere in tempo, ma almeno siamo riusciti ad accertare le responsabilità. Scritte nelle motivazioni della sentenza. La condanna avrebbe generato maggiore attenzione e forse anche più timore di essere giudicati colpevoli tra i soggetti coinvolti in queste operazioni.

Invece dieci anni dopo sembra di trovarsi di fronte a un nuovo rimpallo di responsabilità, stavolta tra corpi dello Stato italiano.

Sì, ma i singoli operatori che fanno parte della catena di comando e magari omettono un atto dovuto devono sapere che, al di là delle eventuali indicazioni delle sfere politiche, rischiano in prima persona. Sul piano penale, patrimoniale e contabile. Dovrebbero capire che il loro interesse è sempre di intervenire perché i governi passano ma le responsabilità individuali restano.