Il tempio della borghesia francese è irriconoscibile. Il Roland Garros, uno degli impianti di tennis più famosi del mondo, vibra di tensione notturna. Di norma l’impianto è frequentato da abbienti parigini appassionati di tennis, un pubblico chic e beneducato, che fa silenzio prima dei servizi dei tennisti ed è abituato ad accogliere sugli spalti Vip vestiti casual.

Ieri sera, però, il Roland Garros ospitava le fasi finali della boxe olimpica e in particolare la semifinale dei pesi welter (66 kg) tra la pugile algerina Imane Khelif e la thailandese Janjaem Suwannapheng. Un incontro che spicca tra gli altri un po’ per il moral panic razzista e misogino scatenato dalla destra mondiale (menzione speciale per quella italiana); ma soprattutto perché gli algerini sono venuti in massa, caldi come il fuoco. Nel piazzale dello stadio risuona ovunque il grido: «One, two, three. Viva l’Algérie!». Un padre e la figlia adolescente si fanno selfie agghindati dalla testa ai piedi con sciarpe bianco-verdi; dei ragazzi saltellano con in mano bandiere palestinesi; due signore col velo in testa si agitano per trovare l’ingresso giusto, mentre i colori algerini spuntano dalle borsette.

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FINORA le competizioni olimpiche davano tutte un senso di uniformità, di ferrea prevedibilità. In queste Olimpiadi parigine, nei vari impianti di nuoto, ginnastica, pallavolo, basket, skateboard o beach volley, il tifo del pubblico è accuratamente diretto, guidato da speaker e volontari che ne arginano attentamente l’espressione. Gli slogan – quando ci sono – vengono dettati da enormi schermi e ritmati dalla regia televisiva, con il risultato che, se la scritta Paris 2024 non fosse impressa su ogni muro, uno spettatore potrebbe credere di trovarsi in qualunque altra grande metropoli del mondo, a New York, Roma o Tokyo, senza che lo spettacolo risultasse sostanzialmente differente.

I tifosi algerini sugli spalti del Roland Garros foto Ap/Sina Schuldt

Stavolta, invece, si sa dove si è: a Parigi, il cuore dell’ex-impero coloniale, dove gli algerini furono sfruttati e assassinati, affogati nella Senna quando tentarono di ribellarsi. Dove i loro discendenti sono discriminati e tuttora uccisi dalla polizia, in un paese che fa della discriminazione razziale una ragion d’essere sempre più costitutiva della politica nazionale.

All’ingresso dello stadio, un ragazzo con la maglietta della nazionale di calcio algerina fuma una sigaretta, allegramente nervoso. Un giovane soldato si avvicina. È un membro del bataillon des cérémonies, vestito di tutto punto col képi, la camicia e le scarpe lucidate; sono loro a issare le bandiere durante le cerimonie di premiazione. Il tifoso lo guarda e gli sorride: «Mi raccomando alzate la bandiera giusta stasera, eh!».

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ALL’INTERNO DELLO stadio, lo speaker annuncia l’ingresso sul ring di Imane Khelif. Le due signore col velo, quelle con la bandiera nella borsetta ora dispiegata tra le braccia, saltano all’unisono in piedi, spaccando i timpani dei vicini con grida d’incoraggiamento. Il pubblico urla, «One, two, three. Viva l’Algérie». Khelif gioca in casa.

Inizia il primo round, Imane tiene la guardia alta, finta con la mano sinistra, è leggermente più alta della pugile thailandese, la tiene a distanza coi jab e occupa il centro del ring, fa faticare l’avversaria che cerca di raggiungerla, ma lei è sorprendentemente veloce a schivare. Poi – bam! – piazza un diretto e lo stadio esplode. Poche combinazioni per ora, le pugili si studiano ed ecco già suona la campana, fine primo round.

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LA FOLLA è in visibilio. Solo issandosi sulla punta dei piedi si riesce a scorgere lo schermo dei punti: 10-9 per Imane. Inizia il secondo round, Khelif sempre con la guardia alta, Suwannapheng attacca furiosa, sa che è in svantaggio e deve recuperare se vuole avere una chance: adesso è lei che fa muovere l’avversaria, cerca di spingerla nell’angolo. Ma Khelif riesce sempre a essere un passo avanti, è appena appena più rapida, con una combinazione fa saltare la guardia della thailandese: gancio destro e gancio sinistro, bam-bam. Le signore col velo fanno riesplodere i timpani dei vicini. Imane vince anche il secondo round (10-9), si respira la finale.

Il terzo round inizia con Khelif che si difende dagli attacchi di Suwannapheng, piazza un diretto col sinistro e poi un gancio, il pubblico esplode ancora. Imane gestisce, la thailandese è brava e veloce. Ma alla fine l’algerina vince ai punti: 30-27, verdetto unanime dei giudici. La thailandese ha fatto vedere un’ottima boxe, ma Khelif ha saputo colpire al momento giusto e con la forza giusta, più dell’avversaria. Di poco, ma quel poco che fa la differenza tra l’avere o meno una medaglia.

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LO SPEAKER DELLO STADIO prova a passare al combattimento successivo, solo che i tifosi algerini continuano a cantare dagli spalti, immersi nella propria gioia. «E ora per l’atleta cinese. One, two, three…» dice lo speaker, aspettandosi che il pubblico, come in ogni altra occasione, risponda «allez!», inconsapevole di aver suscitato un gigantesco, roboante, «Viva l’Algérie!». Sul piazzale interno del Roland Garros c’è un mezzo corteo spontaneo. Una cosa inaudita per questi giochi olimpici, in cui ogni dettaglio è curato fino all’ossessione. Davanti alle telecamere degli inviati, i tifosi ammantati di bandiere algerine gridano, poi parte un coro: «Falastin, Falastin», «Free free, Palestine!», con grande imbarazzo dell’inviato britannico di Sky Sports, sorpreso in piena diretta dalle contraddizioni del suo tempo.

«È una cosa che fa bene», dice Sonia, francese di origini algerine, a proposito del fatto di vedere un’algerina vincere a Parigi. «Fa bene vedere che un paese che viene descritto come sottosviluppato ha dei talenti, per di più donne, capaci di vincere malgrado tutte le polemiche malsane», dice. «Sono cose che si vivono una volta sola nella vita», afferma Kamel, nato e cresciuto in Algeria, poi immigrato a Parigi. «Inshallah vincerà la finale!».

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NELLA MIXED ZONE dove gli atleti incontrano giornalisti e telecamere, il rumore dei tamburi e delle grida arriva attutito. Khelif è in fondo, assediata dagli obiettivi, avvolta in una bandiera algerina. Il suo viso è rilassato, molto più di quello dei suoi due allenatori, visibilmente sull’orlo delle lacrime. Uno dei due è Pedro Díaz, leggenda della boxe di Santa Clara, Cuba, ex allenatore della nazionale cubana. Una giornalista gli chiede: «Your opinion?». Lui si guarda attorno, poi sorride: «One, two, three. Viva l’Algérie!»