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Tra distinguo, post e murales, l’estate del nostro razzismo

Tra distinguo, post e murales, l’estate del nostro razzismoUn turista fotografa il murales originale di Laika per Paola Egonu a Roma foto LaPresse

Opinione pubblica Retorica nazionalista, genetica, caratteristiche somatiche: leggere i giornali italiani durante le Olimpiadi è stata un’esperienza distopica. Sembrava Monaco 1936

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 18 agosto 2024

Oltre che per le splendide vittorie olimpiche e la messe di medaglie conquistate dall’Italia, l’estate 2024 è stata memorabile per il nitore con cui il razzismo italiano ha saputo mostrarsi al mondo come fenomeno di regressione politico-culturale. Disseminando continue agnizioni sulla natura di quella che chiamiamo italianità.

Dopo il florilegio di giudizi di rappresentanti delle istituzioni e personaggi in cerca d’autore su appartenenze sessuali, tratti somatici, cultura woke e identità nazionale, emblematica per precisione simbolica è stata la trasfigurazione del murale della street artist Laika, realizzato per abbracciare le campionesse italiane che hanno riportato uno storico oro per il volley. Sbiancata la pelle, sbiancata la palla con la scritta «stop al razzismo», intatte la bandiera italiana, la divisa azzurra e la scritta «italianità» – travisata, invertita di segno – ad affermare il lugubre slogan che «non esistono italiani neri», scagliato nel 1928 contro Leone Jacovacci, campione di pesi medi italiano di madre congolese inviso a Mussolini, e poi applicato nelle leggi «di tutela della razza» del 19 aprile 1937 che, con il Regio decreto 880, proibivano i matrimoni misti e il madamato e introducevano un rigido regime di apartheid nelle colonie italiane in Africa.

«Il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato», scrisse nel 1938 Giorgio Almirante, segretario del comitato di redazione de La difesa della razza, e poi ancora, nel 1942: «Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle mie vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese».

IL MURALE SFREGIATO restituisce l’immagine di un paese incagliato nella finzione che tutto sia normale; un paese deciso a dimenticare la propria storia, convinto che per cancellare il riflesso deforme rimandato dallo specchio basti la logora ripresentazione della formula assolutoria «italiani brava gente» e un ennesimo – seppur necessario – dibattito sullo ius soli, culturae e scholae, in una realtà sempre più sdoppiata: tifosi razzisti di squadre fatte di campioni neri, fruitori nazionalisti di un’economia basata su lavori e servizi svolti da fantasmi.

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Leggere i titoli dei giornali italiani, per tutta la durata dei Giochi, è stata un’esperienza distopica: erano le Olimpiadi del 1936 di Monaco o quelle del 2024 di Parigi? Genetica, fenotipi, caratteristiche somatiche, tratti fisiognomici, assieme all’idealizzazione di un’inesistente normalità binaria e a una concezione dello sport come supremazia di corpi conformi e occasione di retorica nazionalista, hanno riesumato le tassonomie che sono state l’humus del razzismo eliminazionista del secolo scorso. Un esercizio che ha trascinato l’intera comunità discorsiva, per attaccare o per difendere le atlete prese di mira, mostrandoci il rimosso di una cultura colonialista e razzista, addomesticata, giustificata, ridotta a vaudeville da decenni.

DIMENTICANDO che il razzismo è stato dottrina di Stato del regime fascista e che il suo insegnamento scolastico è stato obbligatorio, causando un involontario e spesso inconsapevole addestramento di intere generazioni, così che la convinzione che l’Italia sia «naturalmente» bianca, che l’identità nazionale passi innanzitutto dal sangue e, conseguentemente, le persone nere siano tutt’al più ospiti tollerati, stranieri più o meno integrati, ha continuato a permeare i pregiudizi sociali e le politiche istituzionali, impedendo per decenni l’approvazione di una legge sulla cittadinanza che riflettesse i cambiamenti che ciascuno può constatare semplicemente entrando in un’aula scolastica. «È un boccone alla volta», ha detto recentemente il generale Vannacci, «che si mangia l’elefante». Allo stesso modo, per restare in tema di pachidermi, avveniva la trasformazione in fascisti nel Rinoceronte di Ionesco.

Ho avuto la fortuna di scrivere un libro con Luigi Luca Cavalli-Sforza – il grande genetista che dimostrò l’infondatezza scientifica del concetto di razza applicata agli esseri umani – sulle appartenenze identitarie che, definendo un sistema di confini (uomo-donna, uomo-animale, bianco-nero, civiltà-barbarie) portano alla gerarchizzazione del vivente e alla creazione di sistemi politici, religiosi e ideologici; costruzioni rintracciabili in un lavoro di educazione – o per meglio dire, di addestramento – che la nostra cultura ha impresso nei corpi, nelle posture, prima ancora che nelle menti, convincendoci della naturalità della violenza gerarchica e della sottomissione.

«Tendiamo a un noi universale», diceva Cavalli-Sforza, «in cui includiamo tutti gli esseri umani, ma questo concetto rimane in grande misura una dichiarazione di principio, o addirittura un’astrazione». I pregiudizi e gli stereotipi sociali esistono, sono ciò che va smussato nel continuo lavoro dell’educazione. Ma la politica è quell’istituto che deve smontare i pregiudizi sociali e gli stereotipi, non nutrirli.

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