Il lasso di tempo trascorso dall’attacco alle Olimpiadi alla pugile Imane Khelif permette di meglio cogliere i tanti risvolti e significati della vicenda e di soffermarsi su alcuni di questi. In primo luogo, colpisce l’esposizione politica del governo italiano ai massimi livelli, niente di meno che con le parole della stessa presidente del Consiglio a difesa della pugile italiana Angela Carini, dopo che questa si è sottratta al confronto «impari» con Khelif: così l’aggredita sarebbe Carini, costretta a gareggiare iniquamente con un’atleta «con caratteristiche genetiche maschili», seguendo «alcune tesi che rischiano di impattare sui diritti delle donne». Più truce l’immagine rilanciata dalla ministra Santanché, «un algerino prende a pugni una donna italiana». Anche la ministra Roccella ha lamentato che un’atleta italiana sia stata «vittima di un’ideologia che colpisce lei e con lei tutte le donne», oscurando il «fatto» che Khelif è «una persona con cromosomi maschili, con corpo e fisicità maschili».
Nel mirino è (ancora una volta) la «ideologia di genere», contro la «realtà» del «sesso». Che nelle intenzioni dei nostri/nostre governanti il no all’ideologia di genere sia destinato a diventare il fiore all’occhiello di una rinnovata cultura della destra ultraconservatrice, è evidente da molti indizi: non ultime, le irruzioni nel Comitato nazionale di bioetica, interpellato dal governo a rivedere un precedente parere favorevole su un farmaco usato per la disforia di genere; mentre alcuni/e componenti sostengono la necessità di rilanciare la «medicina di sesso», giustapponendola all’ormai consolidato lessico – e contenuto – della «medicina di genere».
Di certo il palcoscenico delle Olimpiadi sarà sembrato una ghiotta occasione di grancassa mediatica per il rilancio del «no gender». Destinata però a misero naufragio, a seguito dell’improvvida ricompensa economica offerta ad Angela Carini per la «ingiusta sconfitta» da parte della screditata International boxing association, a guida di un oligarca russo. Tanto basti a far capire quali siano i compagni di strada nella santa battaglia contro «l’ideologia di genere.
C’è un aspetto degno di menzione e particolarmente odioso: in nome della presunta «certezza» (oggettiva) del sesso biologico, Imane Khelif è stata dichiarata «non donna». Peraltro, il granitico biologico è stato autorevolmente da più parti messo in discussione: si veda il genetista Giuseppe Novelli, per il quale esistono differenze interne nei sessi, che vanno studiate caso per caso. Ma è l’aspetto simbolico di quella agitata «verità» del sesso biologico a inquietare di più perché spinge a calpestare la soggettività delle persone.
La «certezza» – che risuona lugubre parente stretta della «purezza» (ora del sesso, un tempo della razza) ha travolto l’esperienza umana di Imane, una donna che come tale ha sempre vissuto e gareggiato. Difficile immaginare qualcosa di più violento di quel verdetto «non sei una donna»: con in bocca i «diritti delle donne», ma dimenticando le differenze fra donne e la dignità di ognuna. Con semplicità lo ha ricordato Imane: la mia è una vittoria per tutte le donne.
Molto altro ci sarebbe da dire sulla battaglia «no gender», scavando alle radici fino a individuarne le tante ramificazioni avvelenate. Come spiega Judith Butler nel suo recente libro Chi ha paura del gender?: far circolare il fantasma «pigliatutto» del gender è anche un modo per i poteri attuali (stati, chiese, movimenti politici) di spaventare le persone e farle rientrare nei ranghi: al tempo stesso spingendole a buttare fuori le loro paure e a rovesciare odio verso le comunità vulnerabili.
Imane Khelif è una donna africana. Forse per questo ha dovuto affrontare l’ingiustizia di non vedersi riconosciuta come donna, forse per questo non aveva diritto di vincere, hanno detto molte algerine e molti algerini. E forse non a torto.
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