Quella che sta per concludersi a Trapani è un’udienza preliminare della durata portentosa di quasi due anni che riguarda il più importante procedimento contro il soccorso civile nel Mediterraneo centrale costruito dalle autorità italiane.

A otto anni dai fatti, ieri il procuratore aggiunto Maurizio Agnello ha chiesto il proscioglimento affermando che «il fatto non costituisce reato». È proprio tra i corridoi della procura di Trapani che nel 2016 sono stati gettati i semi di quello che diventerà il maxi-processo contro le Ong. L’unico, a eccezione dell’inchiesta contro Mediterranea, ancora in piedi.

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A LUGLIO dell’anno scorso era stato spacchettato dalla Cassazione tra diversi tribunali: Trapani, Palermo, Castrovillari, Ragusa e Vibo Valentia. Nel capoluogo più occidentale della Sicilia resta il filone contro Iuventa e Medici senza frontiere, ma le persone alla sbarra sono rappresentative anche delle altre organizzazioni. Complessivamente sono 21 gli indagati – tra professionisti del mare, attivisti e operatori umanitari – per le modalità con cui hanno soccorso migliaia di naufraghi in fuga dalla Libia tra il 2016 e il 2017.

Sono anche imputate in qualità di organizzazioni Msf e Save The Children, oltre alla società armatrice Vroon Offshore Services. L’accusa principale, con pene che possono superare i 15 anni e arrivare a 20 con le aggravanti, è di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina.

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IL FASCICOLO del procedimento penale 4060/2016 è lungo trentamila pagine. Ma non riesce a dimostrare la presunta collusione tra organizzazioni umanitarie e trafficanti libici. Il teorema d’accusa è sostenuto non da prove ma da suggestioni. Come le elucubrazioni di Pietro Gallo, l’ex poliziotto impiegato come addetto alla sicurezza sulla nave di Save the Children, dalla cui denuncia alla squadra mobile di Trapani è partita l’indagine. In una conversazione intercettata e trascritta in grassetto Gallo spiega di aver denunciato perché nel Mediterraneo «c’era la merda che bolliva».

Le carte dell’inchiesta espongono invece con precisione pratiche che vanno ben oltre il limite della ragionevolezza, se non della legalità, da parte degli stessi inquirenti che: installano microspie sui ponti di tre navi e negli uffici trapanesi di Msf; infettano con virus informatici i telefoni di due dipendenti di quest’organizzazione; infiltrano un poliziotto nell’equipaggio di Save the Children; intercettano almeno 40 utenze in mezza dozzina di paesi, ascoltando le conversazioni di giornalisti, politici, attivisti, avvocati, medici, prelati vaticani.

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LA POLIZIA TRASCRIVE anche una conversazione tra un indagato e il suo difensore. E intercetta per quasi un anno il telefono della giornalista freelance Nancy Porsia, che in quel periodo lavorava sul coinvolgimento nel traffico di persone, armi e petrolio delle milizie finanziate dall’Italia per formare la nuova guardia costiera libica.

«Tutto regolare», diranno gli ispettori inviati nel 2021 dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia a controllare l’operato degli inquirenti. Bisogna prenderne per buona la parola perché il loro rapporto non è mai stato pubblicato.

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IMBARAZZANTE dal punto vista giuridico, il fascicolo di Trapani è però un documento storico fondamentale per ricostruire la svolta nelle politiche migratorie italiane maturata tra il 2016 e il 2017, il cui impatto dura ancora oggi. Vi si trovano documenti riservati di Ong, procure, istituzioni italiane ed europee insieme alle conversazioni private di chiunque si interessava alla situazione nel Mediterraneo, dai membri del governo all’ultimo dei marinai.

Alla fine del 2016 il sottosegretario ai servizi segreti Marco Minniti era asceso al ministero dell’Interno nel nuovo governo Gentiloni con una missione: bloccare gli sbarchi di migranti prima delle elezioni di marzo 2018, quelle in cui trionferanno i Cinque Stelle e Salvini. In seguito a un aumento vertiginoso delle morti in mare, nei mesi precedenti si era formata una flotta informale di organizzazioni della società civile ormai dotata di una dozzina di navi e responsabile per un salvataggio su quattro.

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LE ONG DIVENTANO il primo obiettivo di Minniti, che si insedia al Viminale il giorno stesso in cui il dirigente del ministero Vittorio Pisani invia alla Direzione centrale anticrimine un rapporto in cui invita a svolgere indagini sulle navi umanitarie. Il documento, contenuto nel fascicolo di Trapani, accusa le Ong di essere «un inevitabile fattore d’attrazione per i migranti e le organizzazioni criminali che ne gestiscono il traffico» e di «indottrinare» i migranti soccorsi per indurli a non collaborare con la polizia. L’invito a indagare è raccolto dalla Direzione nazionale antimafia guidata da Franco Roberti, che con un «atto d’impulso» estende il rapporto Pisani alle procure antimafia.

Ma nella corsa a soddisfare i desiderata ministeriali la procura ordinaria di Trapani parte in vantaggio: già da qualche settimana ha aperto un procedimento penale per far luce sui soccorsi in mare. Dopo uno sbarco a Trapani, l’addetto alla sicurezza della nave di Save the Children Pietro Gallo e due suoi colleghi, tutti ex poliziotti, hanno utilizzato una lite a bordo come pretesto per andare a denunciare alla squadra mobile quello che, secondo loro, bolliva nel Mediterraneo.

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L’INCHIESTA INIZIA A RILENTO ma tra aprile e maggio 2017, improvvisamente, i salvataggi delle Ong diventano il principale tema di dibattito politico del paese. In quel periodo Luigi Di Maio conia l’espressione «taxi del mare» e il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro cita, in parlamento e in tv, probabili piani per «destabilizzare l’economia italiana e trarne dei vantaggi» da parte delle Ong. Dice: «alcune organizzazioni potrebbero essere finanziate dai trafficanti e so di contatti». Specifica che non ha le prove.

Gallo, che invece crede di averle, scalpita: al telefono con un agente della digos di Arezzo, suo amico, dice che sul soccorso in mare «tanta gente si sta già prendendo un sacco di meriti». Gallo e la sua collega Floriana Ballestra entrano in corrispondenza con Salvini, che usa in campagna elettorale le informazioni ricevute dagli ex poliziotti. Ballestra chiede a Salvini un posto di lavoro, così la segreteria del leader del Carroccio la mette in contatto con un assessore leghista in Liguria per vedere cosa si può fare. Gallo vola più alto: sogna di fare l’agente segreto. Non sa che gli inquirenti l’hanno già scavalcato, mettendosi d’accordo con il suo datore di lavoro, il titolare della Imi Security Cristian Ricci, per far assumere un poliziotto sotto copertura sulla nave di Save the Children. L’agente partecipa a varie missioni di salvataggio. Una donna gli muore tra le braccia. La polizia più tardi pubblicherà un video per esaltare le gesta di soccorritore dell’agente mandato a bordo a raccogliere prove contro i veri soccorritori.

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DAL VIMINALE, MINNITI ragiona di un «codice di condotta» per regolare l’operato delle Ong e cedere il coordinamento dei salvataggi a una guardia costiera libica ancora in fase di costituzione. Le Ong, in fermento, si riuniscono per discutere il da farsi. C’è chi è disposto a collaborare con i libici e riportare indietro le persone soccorse in mare e chi non è disposto neanche a seguire gli ordini di Roma. Le opinioni sono tante e a volte inconciliabili: danno luogo a discussioni che, intercettate e messe agli atti, permettono agli inquirenti di dividere le Ong in buone e cattive. Quelle animate da puro spirito umanitario e quelle che sarebbero mosse da oscuri interessi.

Tra luglio e agosto si giocano le ultime battute. Minniti vuole imporre alle Ong la firma del codice di condotta. Iuventa ed Msf resistono. In una riunione con il gabinetto del ministro, Msf fa un ultimo tentativo di raggiungere un accordo sulla firma. Subito dopo il rappresentante dell’Ong viene intercettato mentre riferisce dell’incontro a un suo collega.

La polizia riassume così: «Dice che stamattina avrebbero fatto una minaccia velata, dicendo che se firmassero sarebbe preso in considerazione per il discorso delle procure». Il gabinetto di Minniti nega l’episodio. La minaccia comunque non va a segno: Msf non firma il codice di condotta, ma sospende per un lungo periodo le operazioni nel Mediterraneo.

Iuventa annuncia che non firmerà in un comunicato dell’1 agosto. Il giorno dopo la procura ordina il sequestro preventivo della nave. Non lascerà mai più il porto di Trapani. L’ordinanza non svela i nomi degli indagati ma smaschera Gallo e i suoi, parla del poliziotto infiltrato, cita colorite intercettazioni telefoniche e ambientali. Save the Children abbandona per sempre il Mediterraneo. Per stampa e tv è un festino. Ancora, comunque, non si intravede l’entità della sfrenata attività di spionaggio messa in campo dalla procura di Trapani: rimane ignota fino ad aprile 2021.

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QUALI CHE SIANO gli esiti giudiziari, l’inchiesta di Trapani e la campagna politico-mediatica che l’ha accompagnata hanno già raggiunto eccellenti risultati per le carriere dei suoi protagonisti: per il pm Andrea Tarondo, volato in Sudamerica in missione speciale per fare la guerra ai narcos; per il capo dell’Antimafia Roberti, oggi eurodeputato Pd; per il dirigente del Viminale Pisani, oggi capo della polizia; e ovviamente per Minniti, diventato lobbista delle armi e dell’industria di frontiera per Leonardo.

Il giudice per l’udienza preliminare Samuele Corso, invece, dovrà stabilire quale sarà il futuro delle organizzazioni umanitarie coinvolte e soprattutto dei soccorritori finiti sotto accusa. Verosimilmente dalla sua decisione dipenderà anche quello che avverrà negli altri tribunali tra cui il maxi-processo è stato diviso. In qualsiasi caso sarà un punto di svolta per il soccorso civile nel Mediterraneo centrale.