Qualcuno direbbe che è stato un miracolo, per noi c’entrano più la perseveranza e la preparazione del nostro equipaggio. Oltre a un po’ di fortuna. Mi occupo di soccorsi nel Mediterraneo centrale dal 2015, ma non avevo mai visto niente di simile. Individuare un barcone in mezzo al mare è difficile, ma ritrovare tre persone disperse in acqua da ore è un’impresa disperata. Lunedì abbiamo provato una grande gioia a recuperarne due, poco prima che morissero. Ma ci rimane addosso il grande dolore, che unisce noi e i naufraghi, di non essere riusciti a fare lo stesso con il terzo, lo chiameremo Ebrima.

Mattina presto del 7 agosto. Sono sul ponte di comando della Geo Barents, la nave di Medici senza frontiere. Da capomissione passo molto tempo qui, affianco al capitano, scrutando mare e monitor. Sul canale 16 del Vhf, quello per le emergenze nel sistema di comunicazione radio tra le navi, sentiamo parlare di una «migrant boat» in pericolo. La posizione è a circa 45 miglia da noi. Quasi 85 chilometri. Tra quattro e cinque ore di navigazione. Giriamo la prua, pur non avendo informazioni precise.

Intanto da Lampedusa è decollato l’aereo SeaBird 2. A bordo ci sono il pilota e tre attivisti dell’Ong Sea-Watch. Pattugliano il mare dall’alto, alla ricerca di barche in difficoltà. Vedono molto lontano, ma da lassù non hanno modo di intervenire direttamente. Possono però rendersi conto di come stanno le persone, lanciare l’allarme, indicare le coordinate esatte. SeaBird arriva sulla posizione che avevamo ascoltato via radio. Non trova nessuno. Continua la ricerca. Dopo circa mezz’ora lancia l’Sos nel canale 16: «Il barcone è qui, trasporta una ventina di persone, tre sono in acqua aggrappate allo scafo». Un dettaglio insolito, quest’ultimo.

Siamo a tredici miglia dal target. Lanciamo immediatamente i Rhib, i gommoni veloci di salvataggio. Il mio ruolo è osservare la scena dal ponte di comando, confrontarmi con il capitano per i movimenti della nave, dare e ricevere indicazioni agli otto membri del team di ricerca e soccorso sui due mezzi rapidi. «Chiedete dove sono le persone in acqua», dico via radio. È un barcone in ferro, lungo e stretto. Ondeggia pericolosamente. Il motore c’è, ma è fermo. Contiamo 47 naufraghi. «Tre sono dispersi, sono stati trascinati via dal mare alcune ore fa», comunicano dal Rhib.
Trasportiamo tutti sulla Geo Barents il più velocemente possibile, con due trasbordi. I gommoni ripartono immediatamente.

Juan Matías Gil sul ponte di comando della Geo Barents, foto di Msf

A noi sul ponte spetta disegnare lo schema di ricerca. Significa stabilire in che direzione muovere i Rhib, quale percorso fargli seguire. Da questa scelta può dipendere la vita o la morte di una persona. La responsabilità moltiplica lo stress. È più difficile che trovare un ago in un pagliaio: oltre alle microscopiche dimensioni di un corpo rispetto all’immensità del mare, qui nulla sta fermo. Tutto scorre. Incrociamo il vento e la corrente, stimiamo da quante ore sono dispersi, calcoliamo che una barca alla deriva si muove più velocemente di una persona che un po’ nuota, un po’ galleggia. Facciamo delle ipotesi. Stabiliamo di andare verso nord, seguendo un tracciato regolare che permette di avere visibilità a destra e a sinistra.

Intanto arriva una chiamata radio. Viene dalla Miskar, piattaforma petrolifera che si trova una quarantina di miglia a sud-est dalle isole tunisine di Kerkennah. Gli avevamo chiesto se erano stati loro a parlare in quella prima comunicazione sulla barca in pericolo ascoltata la mattina. Hanno negato, ma a me è rimasto il sospetto. Adesso sono loro a dirci qualcosa: «C’è un uomo in mare. Lo vediamo. Non sappiamo se sia vivo o morto». I Rhib spingono i motori al massimo. Lo raggiungono. È vivo. Sale a bordo. Lo abbracciano. Decidiamo di continuare la ricerca in quella zona, ipotizzando che gli altri due possano essere vicini. O meglio: sperandolo.

Dal ponte della Geo Barents abbiamo tutti i binocoli puntati sull’acqua. In ogni direzione. «Là, là», grida uno di noi. Con il dito indica le colonne di acciaio della piattaforma. C’è una persona. Sta nuotando disperatamente verso di noi. Il gommone la raggiunge. I due sopravvissuti sono trasferiti sulla nave a tutta velocità. I medici diranno che mostravano i primi segni di ipotermia. Ancora un’ora in acqua, massimo due, e sarebbero annegati.

La gioia è immensa, ma si mischia alla tensione. Che è alle stelle. Sono le 20.30. Resta poco meno di un’ora di luce. In quel momento la visibilità scende rapidamente da due, tre chilometri a trenta metri. E noi sappiamo che c’è ancora una persona da sola, dispersa, in un mare che sta diventando buio e freddo. Alle 21.15 è notte. Continuiamo a cercare per un’altra ora e mezza usando le luci dei gommoni e quelle della nave. Dare l’ordine di sospendere l’operazione tocca a me. E non è facile.

Abbiamo portato al sicuro 49 persone, ma è impossibile scrollarsi di dosso il peso della cinquantesima. Di quel ragazzo minorenne, Ebrima, che non siamo riusciti a trovare. Che non siamo riusciti a salvare. I sopravvissuti sono quasi tutti del Gambia. Molti si conoscevano prima di partire. Alcuni vengono dallo stesso villaggio. Non riescono a riprendersi dal lutto. Fanno una cerimonia per ricordare chi non c’è più, tutti insieme.

C’è chi resta muto anche dopo e chi riesce a raccontare. Sono partiti dalle coste tunisine tra Sfax e Mahdia la sera di mercoledì 2 agosto, poco prima di mezzanotte. Avevano otto taniche da 20 litri di carburante. Senza telefono satellitare. Con solo un’app sullo smartphone a fare da bussola. Smette di funzionare presto. Vedono un altro barchino in ferro e si mettono a seguirlo. Il tempo peggiora. Le onde crescono. Venerdì notte il motore si blocca. I naufraghi vedono dei bagliori. Credono siano delle navi. Ma non possono raggiungerle. Riempiono d’acqua marina quattro taniche ormai vuote e le sistemano ai bordi della barca: vogliono evitare che si capovolga. Sono sicuri succederà. Non tutti hanno un giubbotto di salvataggio.

Sabato, invece, il tempo migliora: aprono il motore e lo sistemano. Lo riempiono con il poco carburante rimasto. Riparte. Si riferma. Intanto, oltre la benzina, è finita pure l’acqua. È domenica e sono alla deriva. Vedono in lontananza la piattaforma. Nel primo pomeriggio di lunedì li sorvola un drone. «Come quelli che si vedono nei servizi sulla guerra in Ucraina. Lungo circa due metri», raccontano. Un’ora dopo dalla barca avvistano una tanica che galleggia. Sembra piena. Può essere acqua o carburante.

In due si tuffano per provare a recuperarla. Sono le due le persone che recupereremo ore dopo. Non riescono ad agganciare il contenitore di plastica. Il mare li sta trascinando via. Altri due si tuffano per aiutarli. Uno è Ebrima, l’altro riesce a tornare sulla barca. Chi è rimasto a bordo si confronta: seguire a nuoto i tre è inutile. L’unico modo per salvarli è chiedere aiuto. Chi ha ancora forze si tuffa con l’idea di spingere il barcone verso la piattaforma, nuotando, e da lì chiedere aiuto per i dispersi. È a quel punto che arriva l’aereo di Sea Watch. Un’oretta più tardi iniziano a salire sui nostri Rhib.

Adesso stiamo navigando verso La Spezia. Arriveremo oggi, tra qualche ora. Nonostante tutto quello che è successo, il Viminale ci ha assegnato un porto lontano più di tre giorni. Saremmo potuti rimanere in mare a salvare altre vite o tornare a farlo rapidamente dopo lo sbarco dei superstiti in un porto vicino. Invece, risalendo verso nord, ci troviamo a leggere di un altro naufragio. Altri 41 morti. Altri Ebrima inghiottiti dal mare.