Un lascito di saggezza e di lotta per le nuove generazioni
Alberto Asor Rosa – Danilo De Marco
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Un lascito di saggezza e di lotta per le nuove generazioni

La scomparsa di Asor Rosa La sua parabola, esistenziale e intellettuale, vive di un’autentica passione culturale, politica e civile per l’italianità di un Paese forte in uno Stato debole

Pubblicato più di un anno faEdizione del 23 dicembre 2022

Alberto Asor Rosa è scomparso al termine di una lunga e laboriosa vita. Avremmo potuto celebrare le sue esequie in Campidoglio ma i familiari hanno giustamente voluto che si celebrassero alla Sapienza, l’Università che per oltre quarant’anni ha visto Asor Rosa, allievo di Natalino Sapegno, svolgere il suo magistero come professore di Letteratura italiana.
Migliaia di studenti e studentesse hanno seguito i suoi corsi, apprendendo non soltanto gli aspetti fondamentali della materia, ma anche un’idea di rigore, un metodo di studio e di ricerca, un esempio dei rapporti fecondi che devono intercorrere tra cultura, politica e vita.

STUDIOSO E CRITICO letterario d’ispirazione marxista, Asor Rosa, da sempre impegnato nella dialettica tra cultura e potere e nell’analisi della realtà sociale, ha seguito la produzione letteraria contemporanea individuando un canone dei classici, ma anche approfondito le origini della nostra letteratura e alcune costanti e tendenze ricorrenti come, ad esempio, il populismo («Scrittori e popolo», 1965).

Chi ha avuto il privilegio di frequentare i suoi corsi universitari non può non ricordarne l’autorevolezza della personalità, la finezza delle sue analisi e un tratto umano ironico e solo apparentemente burbero o distaccato, perché Asor Rosa è stato in realtà un uomo dalle grandi passioni, dalla militanza assidua e dalla polemica tagliente, «un buon cattivo maestro» come amava celiare parlando di se stesso. E per insegnare e organizzare cultura serve anzitutto generosità intellettuale.

Accanto a questo primo aspetto, ce n’è un secondo: l’evoluzione dei rapporti tra politica e cultura che ha costituito la stella polare, tutta novecentesca, del suo pensiero e della sua azione. Non si è mai asserragliato nella torre eburnea dell’erudizione puramente accademico-storiografica, ma si è sempre schierato nella battaglia delle idee e degli interessi.

A PARTIRE DAL 1956, con la scelta di uscire dal Pci insieme a quella schiera di intellettuali che aveva contestato il sostegno di quel partito all’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. Poi sarebbe rientrato nel Pci nel 1972 seguendo con attenzione la nuova impronta della segreteria di Enrico Berlinguer, e portandovi all’interno il nucleo del pensiero operaista maturato negli anni ’60 insieme a compagni e amici come Mario Tronti, Massimo Cacciari e Umberto Coldagelli che avevano influenzato il movimento studentesco e portato il loro decisivo contributo allo sviluppo italiano di una “Nuova sinistra”.

Una formazione e un percorso importante per comprendere, meglio e più di altri, le origini economiche e sociali di quello «strano movimento di strani studenti» che fu il ‘77. Nel libro «Le due società. Ipotesi sulla crisi» descrisse i protagonisti di quella “seconda società” di non garantiti, la crisi dell’università di massa tra docenti precari e studenti «sbandati, marginalizzati, e sottoutilizzati –denunciava – spesso con problemi di occupazione alle porte».

MA C’È STATA UNA TERZA fase, tra gli anni Ottanta e Novanta, quando ha fatto propria la consapevolezza che, nella società globalizzata, il conflitto non è più solo quello classico tra capitale e lavoro, ma a esso se ne affiancano di nuovi e non meno radicali. Tra tutti quello relativo all’ambiente e alla sostenibilità dello sviluppo ai tempi del neocapitalismo globalizzato. Da ciò è scaturita l’attenzione per le battaglie ambientaliste a favore della difesa del suolo, del paesaggio e dei beni culturali a partire dall’amata Val d’Orcia.

SE DEVO COGLIERE una trama comune nella parabola intellettuale ed esistenziale di Asor Rosa (mai come in lui questo due dimensioni tendono a coincidere), la riesco a trovare in un’autentica passione culturale, politica e civile nei riguardi dell’italianità, intesa come consapevolezza storica di essere un Paese forte dentro uno Stato debole.

Nei suoi libri, penso a «Genus Italicum» o all’ultimo su «Machiavelli e l’Italia. Resoconto di una disfatta» c’è una diffusa attenzione ai tratti italici della nostra storia letteraria che tengono insieme i libri con la vita delle città, i paesaggi del contado e le vicende umane dei tanti autori studiati. Grazie a questo metodo critico di matrice storicista continuamente affinato nel tempo, Asor Rosa ci ha restituito la forma di una continuità italica più forte delle invasioni e delle continue frammentazioni statuali, in cui l’unità e anche l’unicità del nostro Paese si sono forgiate attraverso la lingua e la letteratura nei loro rapporti con l’antropologia e con il costume nazionali.

Come è stato sostenuto con acutezza in queste ore dal suo allievo Andrea Bianchi, il tratto letterario unificante è il doloroso destino di sconfitta: da Dante e Petrarca, a Foscolo e Verga. E forse Machiavelli è diventato l’emblema della sconfitta più grande nella Firenze tra Quattrocento e Cinquecento, in un passaggio decisivo della storia nazionale dove non si riuscì a fermare l’avanzata dei “barbari”.

Del doloroso destino di sconfitta nazionale, persino «i contemporanei – Pirandello, Svevo, Gadda -, ne ridono – scriverà Asor Rosa – ma il loro è un riso amaro, grondante lacrime. Io ho amato questa italicità perché mi sembrava di vedervi riflesso il senso più profondo del nostro disperato destino nazionale».

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IN UN ARTICOLO DEL 2012 uscito sul manifesto, in cui analizzava la nascita del governo di Mario Monti, Asor Rosa scriveva che «per fronteggiare la “saggezza” della nuova tecnocrazia del capitale, poggiata su pilastri di tale consistenza, ci voleva un pensiero altrettanto globale e onnicomprensivo di quello su cui essa si sostiene e motiva: una “saggezza” persino più scaltrita e raffinata; e al tempo stesso più corposa e vicina al mondo dei normali esseri viventi, degli individui umani a loro volta pensanti (…) E a questo pensiero, e a questa diversa “saggezza”, deve corrispondere un’organizzazione adeguata (questo nesso – concludeva – non è semplicemente storico: è eterno; se non c’è, niente funziona)».

FIGLIO DI UN IMPIEGATO delle ferrovie, era cresciuto nel palazzo dei ferrovieri di Piazza Tuscolo, a Roma, negli anni del fascismo e della guerra. Facendosi strada nella vita in virtù dei suoi talenti che la cosiddetta “Repubblica dei partiti” – e aggiungiamo anche dei movimenti – e la nuova vita democratica dell’Italia del secondo dopoguerra, hanno saputo valorizzare.

In un tempo incerto come questo vorremmo che i più giovani potessero percepire come un esempio l’energia del suo percorso insieme con l’invito a organizzare una nuova forma di “saggezza” e di lotta.

L’autore è assessore alla cultura di Roma Capitale

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