Tutankhamon s’inabissò nei rocciosi anfratti che fendono la riva occidentale del Nilo alle soglie dell’età adulta. Alla stregua di un divo hollywoodiano, morto tragicamente nel fior di gioventù, la sua fama ha superato i confini della Storia per entrare nel mito. La scoperta della tomba – di cui ricorre il centenario – nella Valle dei Re, a poca distanza dall’odierna Luxor, ha infatti beffato il minuzioso e sofisticato marchingegno egizio del viaggio nell’aldilà, restituendo il faraone-bambino al presente.

Questa traslazione, immaginaria più che miracolosa, dipende forse dal fatto che la stupefacente maschera funeraria del sovrano, in oro e strisce di pasta di vetro blu, ultimo colpo di scena di un complicato e a tratti rocambolesco percorso a ritroso in un sistema di scatole cinesi – la mummia era protetta da quattro sacrari in legno dorato e da un sarcofago di quarzite che conteneva, a sua volta, tre sarcofagi antropomorfi –, ha tramandato il serafico volto dell’eternità. Benché, infatti, Howard Carter – a cui si deve l’impresa archeologica finanziariamente sostenuta da Lord Carnarvon – avesse staccato con gesto maldestro ed empio la maschera, quasi nessuno conosce la crudezza di un cranio color della pece con due incavi adombri che niente hanno del fascino magnetico delle pupille in ossidiana incorniciate da archi color lapislazzulo.

Perché se nel 1976 la mummia di Ramses II, con la «bionda» ciocca di capelli che scende dalla tempia come la sfavillante chioma di Berenice nella più oscura delle notti, raggiunse Parigi per essere curata, mostrandoci non solo la dolente faccia della morte ma anche l’estrema fragilità di un corpo imbalsamato, da un secolo Tutankhamon sconquassa e rapisce gli animi del mondo intero coltivandone l’anelito verso una bellezza scevra di imperfezioni.

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L’importanza, nell’ambito dell’Egittologia, del ritrovamento di una tomba violata due volte da antichi predoni ma nella quale «scenografia» e corredo sono giunti pressoché intatti fino a noi, è riaffermata con dovizia di argomentazioni dal direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco, a cui Garzanti ha affidato la prefazione di Tutankhamen (pp. 444, euro 18,00).

Il volume, uscito nel 2021, è una ristampa anastatica dei diari di Carter pubblicati per la prima volta in Italia nel 1973 dalla stessa casa editrice, con la traduzione di Maurizio Vitta e le celebri foto della tomba scattate dal fotografo del Metropolitan Museum Harry Burton. Greco, che in questi anni si è distinto, oltre che per una dinamica attività scientifica e manageriale, anche per le spiccate doti comunicative, racconta in una trentina di pagine l’epopea di Tutankhamon e quella del suo alter-ego, il caparbio (ma nondimeno spregiudicato e controverso) visionario Howard Carter.

Un’iscrizione quasi certamente databile al dodicesimo anno di regno di Akhenaton – il faraone che instaurò il culto solare del dio Aton introducendo il monoteismo e spostando la capitale da Tebe ad Akhetaton (oggi Tell el-Amarna) – menziona «il figlio carnale del re, il suo amato, Tutankhaton». Con questo appellativo il faraone-bambino ascese al trono intorno al 1333 a.C. mutando però da subito il nome, che richiamava l’immagine vivente del dio Aton, in Tutankhamon. Un gesto che ristabiliva la supremazia del dio Amon e delle antiche divinità del pantheon egizio scalzate dal predecessore, molto probabilmente suo padre, come dimostrerebbero le recenti indagini del Dna, condotte sia sulla mummia di Tutankhamon che sul corpo di un membro della dinastia amarniana – appunto identificato con Akhenaton –, rinvenuto nella sepoltura 55 della Valle dei Re (alcuni studiosi sostengono, tuttavia, che i resti appartengano a Smenkhara: secondo quest’ipotesi, Tutankhamon sarebbe dunque il nipote del faraone «eretico».

Malgrado recenti speculazioni, nessun elemento permette invece di individuare in Nefertiti, sposa di Akhenaton, la madre del faraone che riportò la pace). Tutankhamon morì improvvisamente nel decimo anno di regno mentre l’Egitto era impegnato in una campagna militare contro gli Ittiti, che terminò con la sconfitta di Amqa, vicino a Qadesh. Toccò ad Ay e non al generale Horemheb, che si era attribuito il ruolo di «tutore» del sovrano, condurre le operazioni di seppellimento.

Greco ricorda che fu lo stesso Ay a ufficiare – prima che il sarcofago fosse calato in un sepolcro allestito in tutta fretta riadattando un modesto spazio già destinato al culto regale – il rito dell’«apertura della bocca», che doveva permettere al corpo del defunto di riprendere le sue funzioni vitali nell’aldilà. Quel legame con il regno dei morti sancito da precise regole e consuetudini fu spezzato nel 1924 quando, dopo la scomparsa di Lord Carnarvon, si procedette allo smontaggio dei quattro sacrari e al sollevamento del coperchio del sarcofago lapideo. Lo sbendaggio della mummia avvenne nel ’25 e Carter, profanatore e al tempo stesso sciamano-taumaturgo, si ritrovò finalmente faccia a faccia con la sua ossessione.

Le vicissitudini legate alla ricerca della tomba, perseguita da Carter fin dal 1907 e culminata il 4 novembre del ’22 con la scoperta del primo gradino della scala che conduceva al sepolcro da parte di un portatore d’acqua egiziano, sono ripercorse in maniera approfondita da Christina Riggs in Vedo cose meravigliose Come la tomba di Tutankhamon ha plasmato cento anni di storia (Bollati Boringhieri «Nuovi Saggi», pp. 506, euro 28,00; traduzione di Gianna Cernuschi).

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Tra la pletora di volumi editi in occasione del centenario, questo firmato da Riggs ha il pregio di dare un taglio originale e coraggioso a una storia che – come afferma lei stessa – «è stata raccontata così tante volte che i fatti e la fantasia hanno deciso di condividerne il peso molto tempo fa». L’autrice, folgorata quando era solo una bambina dalla proiezione cinematografica del sarcofago in miniatura di Tutankhamon – lo stesso oggetto che, nel 1961, incantò Jacqueline Kennedy durante l’inaugurazione della rassegna sui tesori del faraone alla National Gallery of Art di Washington –, ha intrapreso studi di Egittologia negli Stati Uniti, prediligendo in seguito la Storia dell’archeologia. Specialista, inoltre, di Storia della fotografia, Riggs spoglia il lavoro di Harry Burton – a cui la diffusione della scoperta deve gran parte del suo successo planetario – dell’aura di autenticità.

Svelando l’«inganno in bianco e nero che vorrebbe farci credere di aver fermato il tempo», Riggs analizza l’impatto culturale del reportage di Burton a partire dagli anni venti del Novecento – quando la società aveva appena iniziato a familiarizzarsi con i mass-media – fino a oggi, epoca in cui, dalle mostre (anche virtuali) alle pubblicazioni, si continua a trasmettere l’illusione che le immagini delle migliaia di reperti rinvenuti nella tomba KV62 – dov’erano accatastati come nel «magazzino degli oggetti di scena di un teatro dell’opera» – rivelerebbero una qualche verità su Tutankhamon e non, piuttosto, sul nostro presente.

Questa è solo una delle numerose riflessioni (o provocazioni) che Riggs offre al lettore, spingendolo a rinunciare a quel romanticismo di cui lei medesima fu vittima per confrontarsi con una narrazione, che è innanzitutto indagine storica, più aderente ai valori del Terzo millennio.

In questo senso, l’autrice non ha paura di rammentare che l’impresa di Carter fu un progetto imperialista, il cui razzismo persiste e influenza ancora la ricerca accademica e scientifica.

Nei diari dell’egittologo britannico e nei resoconti sulla stampa che scatenarono la Tut-mania, gli egiziani coinvolti nella scoperta sono silhouette evanescenti, piegate sotto il peso di gerle ricolme di macerie e di oblio. Gli operai sfruttati nello scavo e poi gli abitanti del villaggio tradizionale di Gurna – il più vicino alla tomba del faraone-bambino –, completamente raso al suolo tra gli anni quaranta e il 2009 per le esigenze sempre più devastanti del turismo di massa, hanno scontato il prezzo del colonialismo, delle guerre e di una modernizzazione che non ha esitato a barattare la dignità di un popolo con l’avidità di dittature interne e di governi occidentali.

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Ma anche Tutankhamon, ci tiene a precisare Riggs, sempre guidata da un’etica priva di condizionamenti, è stato umiliato attraverso il massacro delle sue spoglie in nome di studi votati più al marketing e ai guadagni senza freni che alla paleopatologia.

L’iconica maschera del faraone – riproposta dagli street-artist durante la rivoluzione del 2011, partita proprio da Piazza Tahrir, di fronte al museo egizio del Cairo che ospiterà ancora, fino all’imminente apertura del Grand Egyptian Museum, parte del «bottino» di Carter – prova che il volto del sovrano, simbolo identitario dalle differenti sfumature politiche, usato fin dagli anni sessanta del secolo scorso per negoziare tregue, progetti industriali e forniture di petrolio, può essere ancora brandita come arma di riscatto. Un’arma bianca contro il potere corrotto che reprime quotidianamente nel sangue i diritti umani. Una rinnovata Tut-mania che sostenga, grazie all’audace messaggio di Riggs, le lotte degli Egiziani di oggi.