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L’Egitto mediatore interessato negozia anche per sé. E ne uscirà sconfitto

6 maggio 2024, i carri armati israeliani occupano il valico di Rafah6 maggio 2024, i carri armati israeliani occupano il valico di Rafah

Medio Oriente Mai prima Il Cairo aveva perso il controllo del valico di Rafah. E ora si trova a dover trattare sul corridoio Philadelphia, quando la presenza israeliana è già una violazione del trattato del 1979. La ragione: il paese ha perso il suo ruolo centrale nella regione

Pubblicato circa un mese faEdizione del 28 agosto 2024

Nei giorni scorsi gru e scavatrici si sono messe al lavoro lungo il muro di separazione tra Gaza e l’Egitto per riparare i danni provocati dall’offensiva israeliana sul lato palestinese della frontiera. Dalle immagini, pubblicate dalla fondazione Sinai for Human Rights, si vede anche una nuova strada asfaltata che corre lungo il confine. Quel tratto di barriera è il corridoio Philadelphia, 14 chilometri di zona cuscinetto vecchia di 45 anni, dal primo trattato di pace siglato da Israele con un paese arabo, l’Egitto di Anwar Sadat nel 1979.

Il corridoio Philadelphia è da settimane uno dei principali nodi nel negoziato tra Israele e Hamas: chi lo controllerà, chi lo sorveglierà. Questione fondamentale per Israele che, assumendone il controllo, chiuderebbe il cerchio dell’assedio su Gaza e priverebbe qualsiasi entità governerà la Striscia dopo la guerra dell’unica finestra sul mondo.

È fondamentale anche per l’Egitto, fino al 7 ottobre monarca quasi indiscusso del valico di Rafah. Dal Philadelphia passano tanti interessi, tanto più per un regime come quello di Abdel Fattah al-Sisi che, dal golpe del 2013, ha usato il pugno di ferro su un lato e l’altro di Rafah, quello egiziano e quello palestinese.

HA ORDINATO la distruzione del migliaio di tunnel che dal territorio egiziano permettevano l’ingresso in una Gaza assediata di beni per la popolazione civile e per i gruppi armati. Ha spianato e svuotato le comunità egiziane per garantirsi il controllo totale di una zona diventata fantasma. Ha permesso a compagnie locali, vicine ai servizi, di monopolizzare il traffico da e per la Striscia (Hala, la società che oggi fa pagare ai palestinesi disperati 5mila dollari a testa per rifugiarsi in Egitto, lavora da anni al valico in veste ufficiale).

Al tavolo del negoziato, insomma, non stanno sedute solo le delegazioni di Israele e del movimento islamico palestinese. Il mediatore è attore interessato, coinvolto. Il Cairo sta negoziando anche per sé. E lo fa da una posizione di lampante debolezza. Paese chiave della regione, prima e dopo l’indipendenza del 1922, Il Cairo ha sempre esercitato il suo peso – politico, culturale e diplomatico – sulle nazioni vicine, in Africa e più in generale nel sud globale.

Fino al declino, embrionale sotto Mubarak e maturato dopo il golpe di al-Sisi, reso palese dalle crisi vissute dai paesi vicini, dal Sudan post-Bashir alla Palestina. Esemplare è l’attuale offensiva su Gaza: mai, in nessuna operazione israeliana precedente, l’Egitto aveva perso il controllo del valico di Rafah e della gestione degli aiuti umanitari in entrata. Stavolta, già prima del 6 maggio quando Israele ha occupato il valico e lo ha distrutto, ogni camion in ingresso a Gaza era sottoposto al controllo israeliano, volutamente lento e farraginoso, ostaggio di una «burocrazia di guerra» utilizzata come arma.

NEL NOVEMBRE 2012, sotto il presidente Morsi, il primo ministro egiziano visitò Gaza in piena operazione «Colonne di difesa» e Il Cairo svolse un ruolo fondamentale nel raggiungimento del cessate il fuoco. Oggi, dodici anni dopo, l’Egitto è un paese molto diverso: in piena crisi economica, dipendente dai prestiti finanziari dei paesi del Golfo e dalla copertura politica di Europa e Stati uniti, Il Cairo vede rosicchiata la propria capacità di mantenere una sfera d’influenza stabile.

Il corridoio Philadelphia ne è il simbolo: oggi i mediatori egiziani si trovano a dover discutere con Israele chi controllerà e in quale forma quel pezzo di terra, quando la presenza delle forze militari israeliane al confine è già di per sé una violazione del trattato di pace del 1979. Quel trattato era stato rivisto nel 2005, dopo il ritiro ordinato dall’allora primo ministro israeliano Sharon delle colonie e dell’esercito da Gaza: Tel Aviv avrebbe potuto dispiegare le sue forze sul Philadelphia solo dietro autorizzazione egiziana.

COSÌ, QUELLA che i media filogovernativi egiziani e i pretoriani di al-Sisi hanno descritto per mesi come «linea rossa», è oggi sul tavolo del negoziato. Si discute di quante torri lungo il Philadelphia assegnare al controllo israeliano, se concedere a Tel Aviv una presenza militare fisica o una sorveglianza da remoto, se dispiegare forze internazionali (opzione che Netanyahu non accetterà mai).

In ogni caso l’Egitto ne uscirà sconfitto. A pagarne le spes, saranno sempre i palestinesi, senza mediatori davvero preoccupati del loro destino.

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