Le prime immagini del lato palestinese del valico di Rafah annerito dalle fiamme sono uscite ieri mattina. Unica porta verso il mondo esterno per la popolazione di Gaza, era da quel compound che i palestinesi raggiungevano l’Egitto o tornavano a casa dopo un viaggio all’estero. Prima del 7 ottobre in mano dovevano avere il via libera israeliano, quello egiziano e qualche centinaio di dollari. Ora di soldi ne servono 5mila a testa, li intasca la società egiziana Hala, traffico istituzionalizzato di esseri umani.

ORA NEMMENO quella strada è più percorribile: dal 6 maggio, con il lancio dell’offensiva terrestre sulla città meridionale, le truppe israeliane hanno occupato il valico. È inutilizzabile. Non entrano aiuti, non escono malati e feriti. Ora i soldati lo hanno dato alle fiamme: «La sala partenze del valico è stata completamente distrutta e incenerita – scriveva ieri il giornalista Hani Mahmoud – Non tornerà operativo per parecchio tempo».

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Di motivi ufficiali dietro il rogo non ce ne sono, l’esercito israeliano non commenta. La distruzione di un luogo che non è solo simbolico ma è fonte essenziale di sopravvivenza è parte del quadro più ampio di devastazione. Seppur gli Stati uniti insistano a dire che finora l’«ampia operazione» minacciata da Israele su Rafah (linea rossa per gli alleati occidentali) non c’è stata, la città diventata rifugio a 1,5 milioni di sfollati palestinesi è un cumulo di macerie.

Con gran parte degli sfollati fuggiti, nell’ennesimo trasferimento forzato, i bulldozer militari si fanno strada tra le case bombardate di Rafah, demolendo quel che resta degli scheletri. Rafah è circondata, gli attacchi giungono da ogni lato della città. Tra le zone più colpite c’è il corridoio Philadelphi, zona (in teoria) demilitarizzata al confine con l’Egitto: «Le forze israeliane continuano sistematicamente a demolire le case a est e vicino al corridoio Philadelphi – aggiunge Mahmoud – Queste zone sono completamente rase al suolo, non ci sono più edifici residenziali e campi agricoli».

Da parte sua Tel Aviv ieri dava notizia dello smantellamento di circa la metà delle forze combattenti di Hamas, 550 uomini, nella zona di Rafah in 40 giorni di offensiva che ha visto prima l’occupazione dei quartieri orientali, poi di quelli meridionali (corridoio compreso) e infine della sua parte nord-occidentale, il quartiere di Tal al Sultan in cui il 26 maggio scorso un attacco israeliano diretto su una tendopoli ha provocato un incendio e una carneficina, 45 palestinesi uccisi.

IERI, SECONDO giorno di Eid al-Adha, la festa del sacrificio che segna i 40 giorni dalla fine del Ramadan, a Gaza non c’era niente da festeggiare. Con centinaia di moschee distrutte, si è pregato nelle tende e chi ha potuto ha preparato i kaa’ek al ’Eid, tipici dolcetti della festa, anellini di pasta ripiena di datteri.

«Non ci sono vestiti nuovi, non c’è la carne dell’Eid e nemmeno i dolci, non posso dare a mio figlio un gioco per farlo felice», racconta all’Ap Nadia Al-Debis, sfollata a Deir al Balah. Il giorno prima, a un centinaio di chilometri di distanza, a Gerusalemme la polizia israeliana impediva con i manganelli a migliaia di giovani fedeli di pregare sulla Spianata.

Nella Striscia, intanto, il bilancio degli uccisi dal 7 ottobre saliva a 37.347 (a cui si aggiungono almeno 10mila dispersi). Tra loro, ha comunicato ieri l’ufficio stampa governativo di Gaza, anche il 151esimo giornalista, Mahmoud Qasem, del giornale online Falasteen. Tra loro anche 193 membri dello staff dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi che ieri ha definito Gaza «il luogo più pericoloso del mondo per gli operatori umanitari». 193 è anche il numero più alto di vittime di dipendenti dell’Onu in una singola offensiva.

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IN CONFERENZA stampa a Oslo, il capo di Unrwa Philippe Lazzarini ha poi preso parola sulle «pause tecniche» annunciate domenica dall’esercito israeliano tra il valico di Kerem Shalom e Salah-a-din Road, lo stop ai bombardamenti dalle 8 del mattino alle 7 di sera per permettere il passaggio degli aiuti (che in ogni caso non dovrebbero mai essere colpiti), un annuncio probabilmente legato alle pressioni internazionali sullo stallo pressoché totale nella consegna di cibo, medicine e carburante.

Non è cambiato nulla, ha detto Lazzarini. Ieri sera almeno 8 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano mentre aspettavano l’arrivo di un camion a Rafah. Dopotutto il premier Netanyahu si era detto estremamente critico della decisione dell’esercito. «È inaccettabile», avrebbe detto al suo entourage, «la battaglia a Rafah continua come pianificata».