«Giornalisticidio»: un reporter ucciso ogni giorno
Intervista Parla Shuruq Asad, la portavoce del Sindacato in Palestina: «Fare informazione nella Striscia significa essere sfollati in una tenda, poter morire ogni minuto»
Intervista Parla Shuruq Asad, la portavoce del Sindacato in Palestina: «Fare informazione nella Striscia significa essere sfollati in una tenda, poter morire ogni minuto»
Parla di «giornalisticidio» il Sindacato dei giornalisti palestinesi nel comunicato scritto a poche ore dall’uccisione, domenica, di due reporter palestinesi a Gaza, Hamza Dahdouh e Mustafa Thuria. Hamza era il figlio maggiore di Wael Dahdouh, responsabile di al Jazeera nella Striscia, divenuto il volto dell’attacco all’informazione palestinese: in un precedente bombardamento mirato contro la sua casa aveva perso la moglie, la figlia, un figlio e un nipote; in un secondo, era stato ferito al braccio, mentre il suo cameraman – Samer Abu Daqqa – moriva dissanguato. Poche ore dopo ogni perdita ha ripreso il mano il microfono e continuato il suo lavoro.Gaza è oggi considerata il luogo più pericoloso al mondo in cui fare giornalismo. Ne abbiamo parlato con Shuruq Asad, la giornalista palestinese di Gerusalemme portavoce del Sindacato.
Sono 107 i giornalisti di Gaza uccisi dal 7 ottobre. Parlate di «campagna deliberata» per mettere sotto silenzio l’informazione palestinese e «nascondere la verità sulle atrocità di massa compiute da Israele». Cosa significa essere un giornalista oggi a Gaza?
Significa che puoi perdere la vita ogni minuto, perdere la tua famiglia ogni minuto. Significa che sei sfollato dalla tua casa, dal tuo ufficio, dal tuo quartiere. Non hai accesso a internet, all’elettricità, al carburante per viaggiare e lavorare. Significa stare in una tenda al freddo e sotto la pioggia. Significa che non puoi raggiungere i luoghi che hai diritto di raggiungere. Se vieni ferito non hai accesso a cure mediche. Abbiamo perso un collega appena quattro giorni fa: Israele ha rifiutato di evacuarlo per motivi medici.
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Il senso dei reporter per la vitaNon solo uccisioni, ma anche la distruzione delle sedi dei media e le intimidazioni: alcuni giornalisti denunciano minacce telefoniche da parte dello Shin Bet.
Israele ha bombardato 73 sedi dei media. Ha colpito gli uffici di Afp, di Reuters, dei canali arabi. Le vite di tutti i giornalisti sono importanti, ma ci sono casi di attacchi mirati contro determinati reporter. Penso ad Hamza e Wael Dahdouh, a Roshdi Sarraj. A Gaza abbiamo 1.200 iscritti al sindacato tra giornalisti, fixer, cameraman. Negli ultimi tre mesi se ne sono aggiunti 600, la situazione lo richiede: giovani laureati in giornalismo hanno iniziato a lavorare subito come freelance. 107 uccisi significa il 9% dei giornalisti di Gaza in tre mesi, almeno un collega ucciso ogni giorno.
Nel comunicato scrivete: «Le nostre pettorine, invece di essere un simbolo universale di protezione, sono diventate il target dei mirini israeliani, al punto che i nostri colleghi di Gaza dicono che quelle pettorine li fanno sentire in pericolo». Domenica il giornalista Anas el-Najar ha annunciato l’interruzione del suo lavoro perché la sicurezza della sua famiglia è più importante che «trasmettere notizie a un mondo che non conosce l’umanità». Che ne è della libertà di informazione?
Questo attacco colpisce il giornalismo in sé, il diritto dei giornalisti a produrre storie e la libertà di espressione. Si bombardano non solo le persone, ma l’intera professione perché questi reporter sono i nostri occhi e i nostri sensi sul campo. Lavorano in una situazione in cui nessun altro al mondo ha mai lavorato. Non è mai accaduto che i giornalisti venissero presi di mira così. Sono molto coraggiosi. Noi proviamo a sentirli ogni giorno, a volte li raggiungiamo, altre volte no per la mancanza di connessione. Israele vuole che abbiano paura, non vuole che riportino le loro storie. Con l’uccisione di giornalisti e medici, con la distruzione delle scuole, Israele demolisce l’intera società civile. Molti ci dicono di non riuscire a raggiungere aree di Gaza perché sono pericolose o perché non hanno più carburante, si muovono a piedi o con gli asini. Quello che riescono a raccontare è solo una minima parte di quanto avviene. Eppure continuano: è il loro lavoro ed è il loro paese, le loro case, i loro quartieri.
Anche nel resto della Palestina i giornalisti sono minacciati. Che tipo di restrizioni subiscono? Abusi se ne registravano già prima del 7 ottobre, il caso di Shireen Abu Akhleh uccisa a Jenin nel 2022 è il più eclatante ma non l’unico.
Faccio la giornalista da 30 anni e sono stata picchiata, imprigionata e umiliata. Hanno invaso il mio ufficio. È la storia di tutti e 3.500 i giornalisti palestinesi. Dal 7 ottobre ci è vietato entrare a Gaza e in Cisgiordania: muoversi tra i 500 checkpoint militari è quasi impossibile. Chi riesce a raggiungere determinate zone, come Nablus o Jenin, subisce ore di umiliazioni ai checkpoint: ci obbligano a spogliarci, distruggono l’attrezzatura, ci lasciano ore ad aspettare. Alcuni numeri che abbiamo registrato come sindacato in Cisgiordania: 113 giornalisti picchiati, 350 abusi ai checkpoint, 50 aggressioni dei coloni, 90 curati per inalazione di lacrimogeni, 36 feriti da arma da fuoco, 58 arresti, 91 raid nelle case o negli uffici. E poi le vessazioni nelle città israeliane: ai giornalisti palestinesi è spesso vietato coprire quanto avviene in Cisgiordania, molti sono stati arrestati per post sui social o per storie ed editoriali. È vietato anche manifestare.
Nel comunicato chiedete ai colleghi nel mondo di prendere posizione.
Molti media occidentali riprendono la versione dell’esercito israeliano senza seguire le regole base del giornalismo, verificare i fatti o riportare fonti diverse. Molti hanno svolto il ruolo di portavoce di Israele e disumanizzato i palestinesi. A me hanno posto domande inaccettabili: siamo sicuri che sia una giornalista? Siamo sicuri che non stia con i miliziani? Siamo sicuri che il suo ufficio ospiti solo l’Afp? Non abbiamo bisogno di prese di posizione ma di professionalità. A Gaza è sotto attacco ed è pericoloso per tutti: se le persone restano in silenzio oggi, resteranno in silenzio anche altrove.
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