Wael Dahdouh è direttore e corrispondente di Al Jazeera da Gaza. L’esercito israeliano gli aveva ucciso i figli di sette e quindici anni, sua moglie e altri otto parenti. Ieri l’ultimo figlio, il più grande, giornalista anche lui. Giravano in rete suoi video di quando aveva scoperto della strage della sua famiglia mentre copriva il servizio, mentre seppelliva il figlio: succede durante una guerra, se sei una persona esposta mediaticamente, che qualcuno riprenda le cose tue private, che tutti vedano il lutto che abitualmente è una stanza segreta, preclusa ai più.

Ma ieri è accaduta una cosa diversa, diversa dalle macerie, dai piccoli sudari a cui ci siamo abituati in questi tre mesi, dico abituati, ché non avremmo mai pensato di conoscere così bene l’aspetto di sepolture diverse dalle nostre.

E mentre ci eravamo abituati, dico abituati che non significa accettare, significa solo sapere cosa stiamo guardando, in qualche modo quindi controllare quanto e quale dolore prendere su di noi di questo genocidio, è successa una cosa diversa: che questo omone grosso e piegato dal lutto si è asciugato le lacrime, si è fatto fasciare la mano ferita, ed è tornato alla base – un miserrimo rifugio dove stanno gli altri colleghi, tutti gli inviati – per lavorare. Si vede questo ultimo video in cui arriva, un medico gli porge le sue condoglianze abbracciandolo, con uno dei sorrisi più comprensivi e dolci che io abbia mai veduto sul volto di un uomo, poi un tecnico gli dà il microfono.

La redazione consiglia:
Reporter palestinesi sotto tiro, per Israele sono tutti «terroristi»

La mano che stringe il microfono è ferita, è fasciata, il filo del microfono parte dalle bende, nell’altra mano si organizza il lavoro con un cellulare. Intanto quel tecnico aiuta il cameraman a «fare il bianco», cioè alza un foglio A4 in modo da perfezionare il colore della ripresa. È un gesto dovuto, automatico, è Al Jazeera, la più grande emittente del mondo arabo, non si sbaglia. Ma in quel momento succede qualcosa: nel momento in cui il tecnico alza il foglio in uno scenario mostruoso, fatto di fumi e macerie e perdita del senso comune dell’essere umano, irrompe nuovamente l’umanità. È la quotidianità con i suoi segni, è il senso profondissimo del dovere, è la vita intesa come missione, ed è quello che tutti noi conosciamo quando ci siamo obbligati a lavorare mentre ci crollava l’esistenza attorno.

Quando quel tecnico alza il foglio bianco, alza la vita, la rende di nuovo degna, tollerabile nell’intollerabile; di fronte a quel bianco dovuto al mondo che guarda, perché sappia, senta, non rinasceranno i centodue giornalisti uccisi dall’inizio della rappresaglia israeliana su Gaza, ma ne rinasce il lavoro, il senso, l’indirizzo. Il tecnico alza quel foglio, il cameraman dà l’ok, Wael Dahdouh inizia la sua diretta, e vivendo ci insegna qualcosa. È in quel momento che il participio passato «abituati» frana, smette di avere senso, si torna a sentire profondamente perché stavamo piangendo, invocando giustizia, cessate il fuoco, perché riusciamo a sperare. Riusciamo a sperare davanti a una delle più grandi ingiustizie della storia perché quel foglio è come una bandiera, quel foglio già non è più bianco, è già pieno di parole che gridano: succede con la vita, mica con la morte.