Economia

Torna Draghi, aumenta la spinta verso un’economia di guerra in Europa

Torna Draghi, aumenta la spinta verso un’economia di guerra in EuropaMario Draghi a Budapest – Ap

Fianco destro L’ex Bce e presidente del consiglio a Budapest al vertice dei capi di stato Ue: con Trump cambiano le relazioni con gli Usa ma «non tutto necessariamente in negativo». Il governo Meloni insiste sulle modifiche al patto di stabilità Ue solo per gli investimenti in armi. Le opposizioni denunciano che già oggi l'austerità taglia la spesa sociale mentre aumenta quella militare

Pubblicato un giorno faEdizione del 9 novembre 2024

Al vertice dei capi di stato europei a Budapest Mario Draghi si è riproposto nei panni dell’uomo degli ultimatum: se l’Europa non si investirà 800 miliardi di euro all’anno su microchip, intelligenza artificiale e «energia green» e armi allora farà la fine del vaso di coccio tra Cina e Stati Uniti in un’economia di guerra. La sua soluzione è partecipare alla politica di potenza rompendo il metodo dell’unanimità che ha spinto l’Ue a «posporre le decisioni per aspettare un consenso che non è venuto. È venuta solo una crescita più bassa e oggi una stagnazione. Mi auguro che ritroveremo uno spirito unitario, da soli siamo troppo piccoli e non si va da nessuna parte».

PER DRAGHI, autore di un rapporto sulla «competitività» richiesto dalla Commissione Europea, la trasformazione è urgente dopo la rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca. «Farà una grande differenza nei rapporto con l’Europa, non necessariamente tutto in senso negativo, ma dovremmo prenderne atto». Trump «darà impulso ai settori innovativi – ha detto – Proteggerà le industrie tradizionali che sono quelle dove noi esportiamo di più negli Stati Uniti».

IL PROGETTO DRAGHIANO si scontra con i limiti dell’Europa neoliberale, un’aggregazione di Stati che si fanno concorrenza e non intendono condividere le responsabilità necessarie per partecipare al gioco grande, a cominciare dal «debito comune» e dal mercato dei capitali necessari per finanziare gli 800 miliardi di euro all’anno. A Draghi è stato inoltre chiesto dai giornalisti presenti a Budapest se il nuovo patto di stabilità europeo permetterà di spendere il 2% del Pil nelle armi. «È inutile ora dire se è possibile o meno – ha risposto – Bisognerà prendere tutta una serie di decisioni. Poi i soldi si trovano». Per Draghi si possono fare «moltissime cose» ancora prima di decidere sul finanziamento pubblico comune.

LA RISPOSTA interlocutoria di Draghi ha generato in Italia una girandola di reazioni politiche di alto livello. È una dimostrazione del fatto che esiste un’interesse forte, sia politico che lobbistico, ad aumentare la spesa militare italiana e a «scorporarla» dal patto di stabilità che obbliga il governo Meloni a portare il rapporto tra deficit e Pil all’1,5% (è al 3,8% quest’anno) e il debito pubblico verso il 60% del Pil. Nel 2025 sarà al 138,5%.

LA PRESIDENTE del Consiglio Giorgia Meloni ha ricordato che lo «scorporo» è una richiesta del suo governo prima che firmasse il patto di stabilità e che non è stata ascoltata fino ad oggi perché contrasta con le regole-guida di questo patto capestro che ha ripristinato l’austerità. Nel patto di stabilità, ha detto Meloni, ci sono aperture anche ai paesi indebitati [come l’Italia, ndr.] di spendere almeno il 2% per la difesa come chiede la Nato «ma servono gli strumenti per poterlo fare. Io sono assolutamente convinta che l’Europa possa garantire una maggiore autonomia, l’unica cosa che non sono disposta a fare è prendermela con i cittadini italiani e i lavoratori. Noi spendiamo le risorse su priorità che sono reali».

 

LA RICHIESTA di Meloni non è dissimile da altre del ministro della difesa Guido Crosetto. E fa eco a quella dell’altro ieri fatta durante un’audizione sulla legge di bilancio dal ministro dell’economia Giorgetti secondo il quale, per ora, il patto di stabilità non permette di portare la spesa militare al 2% del Pil. Nel 2027 si fermerà all1,6%. A tutti ha risposto ieri il commissario Ue Gentiloni che ha definito quello della Nato un «invito» (e non una pressione con l’elezione di Trump) a spendere il 2% del Pil in armi. «Spetterà al governo seguirlo – ha detto Gentiloni – Il quadro sta cambiando, possiamo ignorare il problema della difesa e della sicurezza, ma faremmo un errore».

COLPISCONO, in questo dibattito, due contraddizioni: il primo è il riferimento di Meloni agli italiani che non devono subire le conseguenze dell’aumento delle spese militari. Con la legge di bilancio in discussione è invece proprio quello che sta accadendo. Ieri lo hanno ricordato i Cinque Stelle o Alleanza Verdi Sinistra, per esempio. Ci sono tagli da 12 miliardi in più anni. Colpiranno ministeri e enti locali, dunque il Welfare, il lavoro, la produzione in senso lato. E c’è un aumento delle spese per la «difesa» (32 miliardi, 13 in più per le armi). Le «priorità reali» di cui parla Meloni sono dunque le prime ad essere tagliate oggi. Domani, se e quando si arriverà al 2%, si presume che lo saranno di più.

IL SECONDO ELEMENTO è la contraddizione interna del patto di stabilità che impedisce di fare investimenti perché aumenta il deficit e il debito. Gli stessi che lo sostengono, a cominciare da Meloni, si lamentano perché impedisce di spendere soldi per i militari. Ma non per i cittadini che dovranno pagare le conseguenze dei tagli per rispettare un patto di cui nulla, o quasi, conoscono.

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