Una legislatura, tre governi, 110 crisi in mare. L’ultima della Sea-Eye 4: il 12 agosto ha fatto scendere 87 naufraghi a Pozzallo, aveva chiesto il porto 11 giorni prima. Nella penultima la Geo Barents, di Medici senza frontiere (Msf), è stata lasciata al largo per oltre una settimana con 659 persone sul ponte. Non si è indignato nessuno: le situazioni di stallo sono diventate un’abitudine. In gergo li chiamano standoff, è come restare in stand-by. Ed è una spia delle trasformazioni che il sistema di soccorso del Mediterraneo centrale ha subito dal 2018, lungo il solco tracciato nel biennio precedente da Marco Minniti (ex ministro dell’Interno Pd): sostegno ai libici, ostacoli ai salvataggi.

A SISTEMATIZZARE I DATI ci ha pensato il ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) Matteo Villa. Nel suo database sono registrate tutte le navi che dopo aver soccorso dei naufraghi, migranti ovviamente, hanno dovuto attendere almeno 48 ore per poter toccare terra. Il primo caso è datato 9 giugno 2018, una settimana dopo l’insediamento al Viminale di Matteo Salvini. È l’episodio con cui apre la sua personale guerra alle Ong: la nave Aquarius di Sos Mediterranée e Msf è costretta a navigare per 1.300 chilometri fino alla città spagnola di Valencia con sopra 629 persone. L’obbligo di adottare le disposizioni per realizzare lo sbarco «nel più breve tempo ragionevolmente possibile», stabilito dalla Convenzione internazionale su ricerca e salvataggio marittimo (Amburgo, 1979) e dai relativi emendamenti del 2004, è violato per la prima volta.

17 giugno 2018, la nave Aquarius a Valencia foto di Daniel Duart/picture-alliance/dpa/AP Images

SEGUIRANNO ALTRE 27 forzature del leader leghista. Dall’altro lato: dieci navi Ong, due commerciali, le Diciotti e Gregoretti della guardia costiera, la Monte Sperone della guardia di finanza, autorità spagnole e maltesi. 12 volte lo sbarco avverrà all’estero, altre sarà imposto dalla magistratura o dall’azione del capitano della nave. Le attese più lunghe toccano alla Sea-Watch 3 (tra dicembre 2018 e gennaio 2019) e Open Arms (agosto 2019): 20 giorni a testa. Per il secondo episodio Salvini finirà a processo per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio. Mentre i naufraghi sono costretti in mare lui è sulla spiaggia del Papeete, chiede «pieni poteri» e si prepara a far cadere il governo giallo-verde.

A CUI SEGUE quello giallo-rosa. Tra gli slogan di lancio: «discontinuità» nella gestione dell’immigrazione e «abolizione» dei decreti sicurezza. Questi ultimi sono solo modificati, mentre sulle politiche migratorie non si registrano rotture. A terra il sistema d’accoglienza, messo in ginocchio dalle misure salviniane, stenta a riprendersi. In mare continuano i finanziamenti alla sedicente «guardia costiera libica», avviati dal memorandum Roma-Tripoli firmato nel 2017 da Paolo Gentiloni (Pd), e i problemi per le Ong. Da maggio 2020 le loro navi subiscono per 15 mesi fermi amministrativi sistematici.

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CON L’ARRIVO del Covid-19 sono sottoposte a quarantene discriminatorie. La vera «discontinuità» rispetto a Salvini sta nell’assegnazione dei porti: avviene ogni volta, in accordo con il diritto internazionale. Ma non subito: le attese diventano routine. Dal Viminale fanno sapere che dipendono dall’organizzazione delle prefetture nei luoghi di sbarco e dalle difficoltà delle strutture di accoglienza. Che però valgono solo per le Ong, dal momento che le unità della guardia costiera o quelle commerciali, tra cui le navi impegnate nelle piattaforme Eni, sbarcano rapidamente i naufraghi anche dopo grandi soccorsi.

Grafico a cura di Matteo Villa (Ispi)

COME MOSTRA l’elaborazione grafica di Villa, i tempi di attesa scendono durante il Conte II ma risalgono con il governo Draghi (che nomina il leghista Nicola Molteni sottosegretario al Viminale). «Se guardassimo a sinistra del grafico la linea sarebbe piatta sullo zero, perché prima del 2018 le navi non aspettavano il porto», commenta Villa. Le attese più lunghe della gestione Lamorgese sono di 11 giorni: nel caso citato in apertura, per la Alan Kurdi ad aprile 2020 e per i naufraghi soccorsi dalle piccole imbarcazioni umanitarie Nadir e Louise Michel, poi trasbordati sulla Sea-Watch 4, a giugno 2022. Solo in un caso una nave Ong non aspetta al largo. Nel pomeriggio dell’8 giugno scorso la Mare Jonio di Mediterranea ha a bordo 92 migranti, rivolge la prua verso la Sicilia e intima al Viminale: «Avete 10 ore per organizzarvi, poi entriamo in porto». Venti minuti prima dello scadere dell’«ultimatum» le viene assegnato Pozzallo.

L’EPISODIO È SIGNIFICATIVO perché con il passaggio di consegne al Viminale l’atteggiamento delle Ong cambia. Si apre un’interlocuzione con Lamorgese, che va avanti anche attraverso la mediazione del Comitato per il diritto al soccorso. Soprattutto all’inizio i risultati scarseggiano: le navi subiscono una raffica di detenzioni (anche se queste tecnicamente dipendono dalla guardia costiera e dunque dal ministero delle Infrastrutture). Poi i fermi si interrompono ma continuano le attese fuori dai porti, che ritardano le missioni di ricerca e soccorso. Durante i governi Conte II e Draghi le Ong trascorrono complessivamente 428 giorni in standoff. Un’enormità. Eppure le organizzazioni umanitarie tengono un profilo basso verso il Viminale. Nei comunicati invocano generiche «autorità europee» che dovrebbero autorizzare gli sbarchi. Che però dipendono politicamente e giuridicamente dall’Italia, a meno di voler fare affidamento su Malta. Che non ha sottoscritto gli emendamenti del 2004 alla Convenzione di Amburgo, ha un territorio grande un quarto di Roma capitale, un centoventesimo della popolazione italiana e dopo la Svezia è il paese europeo con più rifugiati rispetto alla popolazione (a novembre scorso: 18 ogni mille abitanti, contro i 2 dell’Italia). Ed elude impunemente i suoi obblighi di soccorso.

Grafico a cura di Matteo Villa (Ispi)

DAL 2018 LA SCENA del Mediterraneo centrale cambia anche dal punto di vista dell’intervento istituzionale. Nel libro Respinti Duccio Facchini e Luca Rondi ricostruiscono lo «smantellamento» del sistema di soccorso attraverso numeri e atti ufficiali. Le missioni navali europee spostano il loro baricentro sempre più a nord, fino all’attuale Irini-Eunavfor Med che si vanta di non aver fatto nessun soccorso in 30 mesi di attività. A giugno 2018, anche grazie a due anni di lavori preparatori della guardia costiera italiana su mandato della Commissione Ue e del Servizio europeo per l’azione esterna (Eeas), Tripoli riesce a indire la sua zona Sar (search and rescue). A detta di molti esperti è una «finzione giuridica» perché manca una reale capacità operativa, nonostante i milioni di euro e il supporto diretto forniti da Roma, e perché la Libia non è un porto sicuro (lo dice l’Onu). Comunque gli assetti italiani non intervengono più in quell’area, che non va confusa con le 12 miglia di acque territoriali e non determina una sovranità marina ma solo un obbligo di soccorso. Parallelamente aumentano i migranti catturati dai libici e riportati indietro: 9.225 nel 2019; 11.891 nel 2020; fino al record di 32.425 del 2021 (dati Oim).

CON IL BUCO NERO dei diritti si allarga anche quello dell’informazione. Il Viminale pubblica ogni giorno il «Cruscotto statistico» con dati aggregati su sbarchi e accoglienza, ma non il ben più ricco documento «Dati statistici relativi ai migranti sbarcati sulle coste italiane». Che riporta i numeri divisi per eventi, data, luoghi di partenza e arrivo. Anche se da quest’anno è meno dettagliato. I prospetti mensili sulle operazioni Sar della guardia costiera, invece, diventano trimestrali nel 2019 e poi spariscono dal 2020. Il mese scorso vengono anche eliminati dal sito i report 2016-2018, come denunciato da Facchini su L’altraeconomia. A raccontare ciò che accade nel Mediterraneo rimangono navi e velivoli Ong, l’instancabile centralino Alarm Phone e alcuni giornalisti, come Sergio Scandura di RadioRadicale che traccia assetti aerei e marini alla ricerca di barche in pericolo ed eventi Sar taciuti.

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POPULISTI, LIBERALI, centro-sinistra e centro-destra si sono passati in questi anni il testimone dell’attacco al sistema di soccorso nel Mediterraneo centrale. Evitando soluzioni che mettano la vita umana davanti a tutto, come imporrebbe non solo un comune senso di umanità ma anche il diritto del mare con le sue consuetudini millenarie codificate giuridicamente nel XX secolo. È con questo panorama, fatto di almeno 8mila morti in mare e 80mila respingimenti in Libia negli ultimi cinque anni, che dovrà confrontarsi il prossimo governo. Tra le fantasie sovraniste di blocco navale, i rischi reali di sottrazione dagli obblighi internazionali e l’ostinazione di chi non si rassegna alle politiche mortifere di Italia e Ue.