Un dibattito che si anima periodicamente è quello che riguarda l’occupazione di suolo e l’impatto ambientale degli impianti fotovoltaici ed eolici nella prospettiva, che l’Europa si è posta, di arrivare al 2050 con emissioni nette zero.

Di rado, però, in questo dibattito spesso molto acceso vengono messi in campo i termini reali del problema, cioè le quantità e i criteri di valutazione. Forse vale la pena provare a fare un po’ di chiarezza, o almeno portare il dibattito entro un alveo di razionalità.

Per fare ciò occorre, prima di tutto, stabilire quali sono le quantità in gioco e, per farlo, ci riferiamo al solo documento ufficiale aggiornato a oggi disponibile riguardante un possibile percorso di decarbonizzazione (net zero carbon) dell’Italia al 2050.

È la “Strategia italiana di lungo termine sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra” (pdf qui), prodotto nel gennaio 2021 congiuntamente dai ministeri dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali.

Secondo questo documento occorrono 200-300 GW solari e 40-50 GW eolici per azzerare le emissioni dell’Italia al 2050. Questi valori derivano dalle seguenti ipotesi:

  1. Riduzione dei consumi, specialmente nel settore civile e nei trasporti, tanto da arrivare, nel 2050, al 60% di quelli del 2018.
  2. Azzeramento delle emissioni del settore edilizia, con l’eliminazione dei combustibili fossili, sostituiti, per il riscaldamento e la produzione di acqua calda, da elettricità rinnovabile che alimenta pompe di calore e dalle biomasse.
  3. Azzeramento delle emissioni del settore mobilità e trasporti, attraverso:
    • a) il dimezzamento del parco auto
    • b) lo sviluppo della mobilità pedonale, ciclabile e del telelavoro
    • c) lo spostamento del trasporto merci dalla gomma al ferro, e altre misure; il tutto con mezzi di trasporto mossi da elettricità rinnovabile, da idrogeno, da biocarburanti o da carburanti sintetici verdi.
  4. Riduzioni modeste delle emissioni nei comparti industria e agricoltura.
  5. Timido sviluppo dell’economia circolare.
  6. Uso dell’idrogeno verde per alcuni processi industriali, per alcuni tipi di trasporto e per l’accumulo stagionale.

Si può andare oltre le ipotesi su cui si basa la Strategia, integrandole con le seguenti:

  1. Completa e sostanziale applicazione dei principi dell’economia circolare; ciò comporterebbe una significativa riduzione della quantità di merci prodotte, e quindi minori emissioni nel settore industria e minore domanda di energia nel settore trasporti – rispetto ai valori ipotizzati nella “Strategia”.
  2. Il contributo previsto delle biomasse al riscaldamento degli edifici (29% dei consumi) può essere destinato non alle caldaie ma a piccoli cogeneratori a biomassa già esistenti sul mercato che potrebbero essere incentivati. I cogeneratori domestici a biomassa, funzionando solo durante il periodo invernale, fornirebbero un sostanziale contributo di produzione elettrica che ridurrebbe la dimensione del sistema di accumulo stagionale, e perciò la sovracapacità fotovoltaica ed eolica necessaria ad alimentarlo in estate.
  3. Attuando una decisa politica volta alla eliminazione degli allevamenti intensivi e alla sostituzione della attuale agricoltura industriale con le pratiche agroecologiche si ridurrebbe enormemente la quantità di fertilizzante azotato necessario, e quindi la quantità non indifferente di energia e di emissioni connesse al processo di produzione e all’uso.

Tenendo conto di tutto ciò, che invece nella Strategia non è contemplato, si può ragionevolmente e con ampio margine stimare che la potenza fotovoltaica ed eolica indicata necessaria affinché l’Italia sia a emissioni nette zero nel 2050 – senza ricorrere né alla cattura ed accumulo della CO2 né alla forestazione in paesi lontani – sia pari a 200 GW fotovoltaici e 40 GW eolici.

Va precisato che per emissioni nette zero qui si intende emissioni prodotte entro i confini nazionali + emissioni incorporate nelle merci importate – emissioni incorporate nelle merci esportate – emissioni assorbite dai boschi.

Per installare 200 GW fotovoltaici, ipotizzando una occupazione di suolo pari a 2 ha/MW, occorrerebbero 400.000 ha.

Secondo l’ISPRA sui tetti degli edifici potrebbero installarsi fra i 66 egli 86 GW. Usando il valore medio di 70 GW, gli ettari restanti da occupare sarebbero 260.000.

Secondo uno studio condotto da ANIE Rinnovabili ed Elettricità Futura (pdf qui) sarebbero disponibili aree dismesse (superfici con coperture in amianto, cave e miniere esaurite, discariche esaurite, aree industriali dismesse, siti di Interesse Nazionale) pari a 400.000 ha.

Ben di più di quello che occorre. Tuttavia, data la difficoltà, in molti casi, di utilizzare le aree dismesse, si potrebbe, anche per accelerare i tempi, ricorrere all’agrivoltaico, la cui sperimentazione su larga scala è prevista e finanziata, peraltro, nel PNRR e che consiste nella sistemazione dei pannelli a una certa altezza dal suolo sopra un campo agricolo produttivo, e un po’ distanziati per lasciare più sole alle piante sottostanti.

Una soluzione economicamente attraente che potrebbe fermare, addirittura invertire, l’esodo dalle zone rurali.

Ma pure se non si volesse fare uso di queste aree dismesse, attualmente la superficie agricola non utilizzata/abbandonata è pari a più di 4,2 milioni di ettari e inoltre ogni anno in Italia si abbandona una superficie agricola pari a più di 120.000 ha (fonte: ISPRA citato da Italia Solare).

In più occorre considerare il potenziale rappresentato dalle fasce di rispetto ai lati delle autostrade e delle linee ferroviarie, che possono ospitare una molto significativa potenza fotovoltaica.

A questo vanno aggiunti gli impianti galleggianti da sistemare nei bacini artificiali (tantissimi in Italia) e sui canali di irrigazione.

Dunque, il solo ostacolo alla rapida diffusione del fotovoltaico non è l’eccessiva occupazione di suolo, e il conseguente impatto visivo, o il conflitto con la produzione agricola; inoltre, i vincoli paesaggistici possono tranquillamente essere rispettati, dove ci sono, perché spazio altrove non ne manca.

Certo, impianti a terra di grandi dimensioni su terreni agricoli produttivi o abbandonati possono dare luogo ad una riduzione delle biodiversità e ad altri problemi ambientali, ma i grandi impianti sono soggetti a una valutazione di impatto ambientale, necessaria per la loro approvazione.

L’occupazione di suolo derivante dall’espansione dell’eolico è modesta in quanto la potenza da installare verrà principalmente dagli impianti offshore e, a terra, la maggior parte della potenza installata verrà dal repowering degli impianti esistenti.

Per quanto riguarda l’impatto ambientale dell’eolico offshore con turbine eoliche galleggianti, che è stato al centro di dibattiti e polemiche per alcuni impianti, va ricordato che l’impatto è valutato per ciascun impianto e, nel caso di quelli proposti al largo delle coste siciliane, per esempio, si è verificato che addirittura hanno un effetto positivo al fine della salvaguardia dell’ecosistema marino perché rendono impossibile la devastante pesca a strascico.

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Rimane sempre il tema dell’impatto visivo. Per gli impianti offshore le obiezioni sono in generale del tutto capziose, in quanto alle distanze previste, qualche decina di chilometri, sull’orizzonte – nelle giornate eccezionalmente limpide e solo in quelle – emerge un sottile trattino alto meno di un centimetro.

Per gli impianti eolici a terra il dibattito è aperto: ci sono quelli che li detestano e quelli a cui invece piacciono molto, col loro lento ruotare.

Bestiame vicino a un impianto eolico in Kansas (Usa), foto Ap

Quello che è certo è che – chissà com’è – coloro i quali li detestano non hanno avuto e non hanno niente da ridire della devastazione paesaggistica costituita dalle superstrade, autostrade e viadotti che essi percorrono e dai quali vedono gli oggetti che aborriscono.

Anche per quanto riguarda l’alterazione del paesaggio agricolo causata dai campi fotovoltaici – indubbia – ci sarebbe da chiedere a coloro i quali si battono contro di essi come mai non si siano schierati con altrettanto vigore contro le orrende serre in plastica che deturpano il paesaggio e danneggiano l’ecosistema agricolo.

Forse un pomodoro fuori stagione, insapore fra l’altro, giustifica il sacrificio e la lotta contro il cambiamento climatico no?

E poi, mi viene di pensare, a volte: se nella antica Akragas (oggi Agrigento) ci fossero state queste persone, certamente si sarebbero opposte alla deturpazione del paesaggio preesistente causata dalla inaccettabile artificialità dei templi. Ma sarebbero gli stessi che oggi, giustamente, si battono per la loro conservazione.

La verità è che, come diceva Vitruvio 2000 anni fa, la solidità, la durevolezza, (firmitas), la funzionalità (utilitas) e la bellezza (venustas) sono strettamente interconnesse, e non ha senso guardare all’una senza le altre.

Infine, tralasciando la discussione che si è trascinata per decenni sulla contrapposizione – quando c’era – fra lavoro e ambiente (vedi ILVA di Taranto, per esempio), val la pena sottolineare che lungi dall’avere effetti deleteri sull’occupazione, la decarbonizzazione è un potente generatore di posti di lavoro.

Sulla base dei dati forniti dal PNIEC, infatti, a fronte di 17.900 ULA (Unità Lavorative per Anno) permanenti occupate nelle fonti fossili nel 2017 e che nel 2050 si ridurrebbero a zero, nello stesso anno le ULA permanenti totali nel settore delle rinnovabili sarebbero intorno a 72.000, così ripartite:

  • 54.000 nel solare (calcolato usando il parametro 0,27 ULA/MW installato, ricavato dalle tabelle 10 e 74 del PNIEC)
  • 18.000 nell’eolico (Calcolato usando il parametro 0,45 ULA/MW installato, ricavato dalle tabelle 10 e 74 del PNIEC).