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La Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 28 giugno 2024

Un’opera straordinaria Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) realizzò per l’incarico che ebbe nel 1645 dal cardinale veneziano Federico Cornaro: onorare Santa Teresa d’Ávila (1515-1582) nella cappella del transetto sinistro della chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Scrive Enzo Carli: «Da due poggioli sulle pareti laterali della cappella i personaggi della famiglia Cornaro contemplano, come dai palchetti di un teatro, l’evento che si svolge all’interno di un’edicola sopra l’altare», ovvero Santa Teresa raffigurata «al culmine del suo mistico rapimento mentre un angiolo vibra verso di lei uno strale». Teresa racconta che nell’estasi Dio «rapisce l’anima e la distacca dalla terra, a quel modo con cui le nuvole o il sole attirano i vapori», e «il rapimento vi assale con tale impeto che improvvisamente vi sentite sollevare da quella nuvola e vi sentite trasportare, ma senza saper dove».

Bernini traduce in forma di scultura quanto Teresa fissa in forma di parole nelle pagine del Libro de su vida, pubblicato a Salamanca nel 1588. Tanto che la descrizione del gruppo marmoreo più puntuale e, dirò, perfetta si ha leggendo il brano di Teresa al quale Bernini fedelmente si attiene: «Vedevo vicino a me, al lato sinistro, un angelo in forma corporea. Non era grande, ma piccolo e molto bello: all’ardore del volto pareva uno di quegli spiriti sublimi che sembra si consumino tutti in amore, e credo che si chiamino Cherubini. Essi non mi dicono mai come si chiamano; ma vi è tanta differenza tra certi angeli e certi altri, e tra l’uno e l’altro di essi, che non saprei come esprimermi. Quel Cherubino teneva in mano un lungo dardo d’oro, sulla cui punta di ferro sembrava avere un po’ di fuoco. Pareva che me lo configgesse a più riprese nel cuore, cacciandomelo dentro fino alle viscere, che poi mi sembrava strappar fuori quando ritirava il dardo, lasciandomi avvolta in una fornace d’amore. Lo spasimo della ferita era così vivo che mi faceva uscire nei gemiti, ma insieme pure tanto dolce da impedirmi di desiderarne la fine e di cercare altro diversivo fuori che in Dio».

Bernini avvolge il corpo, che si è abbandonato alle trafitture dell’amore mistico, in un panneggio che appare qui alitare, là gonfiarsi in una voluta e poi adagiarsi in una piega, in basso ricadere. Una stoffa leggera che palpita, sussulta e ondeggia e al contempo si stende, si placa. Uno sciogliersi e, insieme, un rapprendersi, un effetto plastico di mobilità e leggerezza e, ad un tempo, di flemma e di quiete. Un tessuto pulsante nasconde il deliquio d’un corpo sostenuto da una nuvola non immobile, ma che fluttua, veleggia.

Mi sono soffermato ad osservare l’andamento impresso da Bernini ai panneggi, quasi egli abbia voluto trasporre in essi gli ardori e gli interiori fremiti della passione mistica, che nel volto di Teresa appare compiersi: le palpebre abbassate, le labbra un poco dischiuse, ad esalare un sospiro che appena si avverte («il corpo rimane come morto» ci dice Teresa). Dunque quella stoffa leggera che si fa nuvola nell’ideazione mirabile di Bernini.

Mi sovviene un episodio divertente della vita di Santa Teresa. Avvenne un giorno nel monastero di San Giuseppe ad Ávila. I camicioni che, sotto le tonache Teresa e le sue monache indossavano sulle nude carni, erano d’un tessuto pesante e grossolano, ruvido e fastidioso, confezionati con l’intento di accrescere un disagio e una mortificazione continua al corpo, a vantaggio di maggior penitenza. Ma quel grezzo indumento era spesso nido e ricetto di insetti assai molesti, pulci e pidocchi. Fu così che una notte le religiose organizzarono una processione innalzando canti all’Altissimo intervallati da una invocazione: «Dalle bestie impertinenti/deh! Preservaci Signor!». Anche Teresa si aggiunse nel chiostro al piccolo corteo e improvvisò cantando queste strofe: «Siate forti, figlie mie,/se davver la croce amate;/contro bestie così rie/il Signor deh supplicate./Vi sarebber di tormento/quando entrando in orazione/non aveste a fondamento/una soda devozione./Queste bestie sì indiscrete/non vi fanno poi morire./Siate forti, non temete!/Qui veniste per soffrire./Volte a Dio con preci ardenti,/confidate nel suo amor».

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