L’inchiesta del manifesto sulle cartucce dell’azienda livornese Cheddite in Myanmar inizia nel marzo del 2021 a un mese dal golpe che ha appena rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi che le elezioni del novembre 2022 hanno appena riconfermato con una valanga di voti.

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Tutto nasce dalla fotografia di un bossolo per fucile da caccia calibro 12 che viene ritrovato da cittadini birmani per strada dopo una sparatoria. La foto del fondello col nome Cheddite viene pubblicata dal quotidiano online Irrawaddy e scatta l’inchiesta in Italia. La ditta però non risponde mentre si accumulano altre fotografie e altri ritrovamenti. L’idea è che la cartucce possano essere state assemblate non con normali pallini – come nel caso iraniano di questi giorni – ma con pallettoni tipo quelli per la caccia al cinghiale. Una ricostruzione della strada delle cartucce franco-italiane arriva sino in Turchia con una triangolazione legale visto che esportare pallottole da caccia non è reato e visto che la Cheddite non è responsabile di come e a chi le sue cartucce, che possono anche essere assemblate in un Paese terzo, vengano poi rivendute.

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Un team di lavoro (Rete Pace Disarmo, Amnesty, Opal, Italia Birmania Insieme e Atlante delle guerre) chiede lumi al ministero degli Esteri che risponde che «non risultano essere mai state rilasciate autorizzazioni all’esportazione di armi per uso civile e/o di munizioni verso il Myanmar in favore di alcun utente» ma che da Livorno arrivarono però «due richieste di esportazione della Cheddite Italy srl verso la Thailandia (…) l’11 maggio 2018» per «un milione» di cartucce dell’identico tipo e «il 16 aprile 2020» per altre «500.000» così come la fornitura alla ditta turca Yavasçalar di «kg 400.000 di polvere senza fumo per la produzione di cartucce da caccia e da tiro per fucili ad arma liscia» il 26 febbraio 2020 e il 20 gennaio 2021. Una vicenda che mette in luce un vecchio problema: la possibilità di vendere armi e cartucce a uso “sportivo” che possono essere convertite in micidiali armi per ammazzare – come presumibilmente nel caso birmano – o per “fermare senza uccidere” – come in quello iraniano – chi protesta pacificamente.

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Francesco Vignarca di Rete Pace Disarmo ricordava che «le munizioni dovrebbero essere considerate allo stesso livello delle armi leggere» senza distinzioni «tra armi comuni e militari» e che Italia dovrebbe promuovere «un’azione a livello Ue e Onu per metterle sotto controllo».

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