Da quando Vladimir Putin è al potere la Federazione russa è stata costantemente in mobilitazione bellica. Cecenia, Georgia, Siria, Libia, Ucraina sono gli scenari principali in cui il putinismo ha combattuto le sue guerre.
Convinto di non potersi sottrarre a un ruolo imperiale iscritto nel destino della Russia, il Cremlino ha deciso di impegnarsi sullo scenario globale per far valere i propri interessi anche al costo di immensi rischi per la tenuta del paese.

Per farlo ha gradualmente militarizzato la società civile russa attraverso misure illiberali, costruendo una narrazione bellicista utile a esaltare le gesta dell’esercito russo e mobilitando la popolazione a sostegno delle proprie campagne militari.

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In una guerra moderna sempre più professionalizzata, per raggiungere i propri obiettivi, Putin si è inoltre appoggiato a dei veri e propri “signori della guerra”, come Kadyrov e Prigozhin.

L’ultimo anno e mezzo di guerra in Ucraina ha dimostrato che le operazioni militari di maggior successo condotte dai russi sono state direttamente gestite dalle truppe cecene (presa di Mariupol) o dal gruppo Wagner (presa di Bakhmut). Tutto ciò non è casuale. A Bakhmut “servirsi” della Wagner è stata una scelta obbligata per Putin, perché con ogni probabilità l’esercito regolare russo non avrebbe accettato di pagare un così alto prezzo in termini di vite umane per avere ragione delle truppe ucraine.

Negli anni scorsi per ricompensare questi “signori della guerra” Putin ha utilizzato un metodo caratteristico della sua gestione patrimonialista della Russia, concedendo a Prigozhin un’indipendenza insolita per il leader di un gruppo di mercenari e rendendo Kadyrov una sorta di Ras della Cecenia.

L’impressione adesso è che nel più classico ribaltamento servo-padrone di Hegel, Putin sia diventato “schiavo” dei mostri che ha creato. La Russia si presenta come un paese dove, al di là della retorica sulla “verticale del potere”, competono gruppi armati tenuti insieme, almeno finora era stato così, solo dall’autorità di Putin.

La scelta del capo dei Wagner di sfidare Mosca è legata almeno a due questioni. In primo luogo egli rifiuta di accettare l’imposizione da parte del ministero della Difesa di entrare con i propri uomini a pieno titolo dentro l’esercito regolare della Federazione russa. Al contrario di Kadyrov, Prigozhin non ha un territorio in Russia dove esercitare il suo potere che deriva dall’autonomia vantata dalla Wagner rispetto al comando militare russo.

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In secondo luogo, Prigozhin si è convinto dell’incapacità o dell’impossibilità di Putin di garantire gli interessi del gruppo Wagner di fronte ai tentativi del ministro Shoigu di distruggere la sua personale base di potere. Ecco, perciò, che il servo si rivolta contro il padrone. Il regime neo-patrimoniale di Putin può funzionare solo nella misura in cui riesce ad accontentare tutti i soggetti che contribuiscono alla stabilità del potere.

Prigozhin ha provato a rompere l’equilibrio su cui si basa il regime, rifiutandosi di sottostare alle richieste del vertice, consapevole che anche dai suoi mercenari dipende il destino della Russia. Probabilmente in accordo con parte dell’élite, ha quindi deciso di organizzare una rivolta armata con l’obiettivo di riequilibrare a proprio vantaggio la distribuzione del potere interna al gruppo dirigente della Federazione russa. Quella che Prigozhin ha chiamato guerra civile è stata piuttosto una resa dei conti all’interno dell’élite russa.

Oggi anche dovesse prospettarsi un’alternativa a Putin e ai suoi più fedeli accoliti, gli uomini che salirebbero alla ribalta sarebbero uomini che con Putin hanno condiviso tutte le scelte in politica estera fino a questo momento, ma soprattutto che hanno contribuito a militarizzare il paese in questi 23 anni. Le critiche di Prigozhin alla guerra russa in Ucraina sono legate al complessivo fallimento dell’operazione militare, che in un anno e mezzo è riuscita a conseguire solo minimi obiettivi a costi enormi.

È presumibile in questo senso che una Russia guidata da un blocco di potere parzialmente diverso, e che vedremo se riuscirà realmente a consolidarsi, possa essere più disponibile verso la fine o il congelamento delle ostilità in Ucraina. Risulta però affrettato pensare che lo sarà al prezzo di rinunciare al Donbass o alla Crimea, ovvero è improbabile che abdicherà alla concezione imperiale della Russia tipica del putinismo.

In altre parole, qualunque sia l’esito di questa “operazione di palazzo” al Cremlino gli uomini al vertice dello Stato saranno affatto nuovi e fortemente convinti, almeno quanto i loro predecessori, dei cardini politico-ideologici illiberali e imperiali che hanno caratterizzato in questi anni il regime di Putin.

* storico, è autore di «Nella Russia di Putin. La costruzione di un’identità postsovietica» (Carocci, 2023)