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Alla fine i nodi vengono al pettine

Alla fine i nodi vengono al pettine

Il caos putiniano Putin con l’aggressione all’Ucraina non ha realizzato alcuno degli obiettivi che voleva acquisire; se non l’avesse fatta, invece avrebbe potuto continuare a pretendere la neutralità di Kiev rispetto alla Nato e la sicurezza delle popolazioni filorusse e russe del Donbass

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 giugno 2023

Intervistando un mese dopo l’invasione russa dell’Ucraina lo straordinario scrittore bulgaro Georgi Gospodinov, gli chiedevo se quella guerra proclamata per difendere la Russia non fosse una guerra fratricida, anzi parricida visto il legame profondo tra le due anime: «Putin – rispondeva – senza rendersene del tutto conto ha aggredito la Russia. In qualsiasi modo finisca la guerra, la Russia l’ha già persa dal punto di vista economico e simbolico. Ha perso la memoria che rimarrà di questa guerra. Non potrà raccontarla, per quanta propaganda possa mettere in campo, così come raccontava se stessa come vittima e vincitrice della Seconda guerra mondiale». Con il caos annunciato in Russia con prodromi di guerra civile e mediazioni sul filo del rasoio, le sue sono parole a dir poco profetiche.

Perché Putin con l’aggressione all’Ucraina non ha realizzato alcuno degli obiettivi che voleva acquisire; se non l’avesse fatta, invece avrebbe potuto continuare a pretendere la neutralità di Kiev rispetto alla Nato e la sicurezza delle popolazioni filorusse e russe del Donbass. Certo che c’era l’«abbaiare» della Nato, con una diffusa cintura di basi e presenze militari di quell’allargamento a Est che segna ancora un limite provocatorio. Ma la crisi durava da otto anni con la guerra civile in Ucraina e poteva rientrare in una nuova trattativa internazionale che, pur falliti i vari accordi di Minsk, poteva, doveva essere riattivata.

Per altro la risposta di una guerra d’invasione ad una guerra civile interna aveva già rappresentato un fallimento sovietico in Afghanistan negli Anni ’70. Ora tutto sembra compromesso.

Ora che la narrativa revisionista di Putin continua a scatenarsi contro la memoria sovietica, fatto significativo che la dice lunga su pensiero putiniano. Dopo avere accusato Lenin di avere «inventato» l’Ucraina perché aveva riconosciutuo nel primo sistema dei Soviet la sua indipendenza come repubblica autonoma da Mosca, stavolta nel discorso di ieri contro l’avventura di Prigozhin, ha rincarato la dose, attaccando la rivoluzione bolscevica: «Stavota – ha dichiarato – non sarà la “pugnalata alle spalle” del 1917 che ha consegnato la vittoria al nemico comune nella Prima Guerra Mondiale»: una interpretazione a dir poco filo-zarista.

Noi de il manifesto che ci siamo lungamente augurati che nei paesi di socialismo reale tornasse d’attualità la radicalità di quella rivoluzione, dovremmo proprio augurarci che sia come nel 1917. Senonché è sotto gli occhi di tutti, insieme alla fine ormai dell’Unione sovietica, il fatto che il paragone tra Prigozhin – uomo corrotto legato a filo doppio al potere degli oligarchi, ricchissimo e diventato teorico dei golpe militari in Africa con le scorribande della Wagner – e Lenin e quello della Brigata Wagner con i bolscevichi è una bestemmia.

L’unico paragone è il carnaio della guerra, voluta e partecipata sia da Putin che da Prigozhin che non ha perso occasione di insistere sull’incapacità dell’esercito russo a far fronte ad una guerra d’aggressione all’Ucraina che ha il sostegno mondiale, chiedendo più volte di cancellare l’idea che basti una «operazione speciale» per proclamare invece lo stato d’emergenza e la mobilitazione generale di guerra. E credibilmente questo sarà stato il livello di mediazione tra i due contendenti. A proposito dell’annuncio di guerra civile e della marcia per la giustizia i «nostri», cioè i pacifisti russi, non partecipano, con nessuno dei «due Putin», non ci stanno, sono in galera, fuorilegge, sotto repressione.

E intanto si sono mossi dentro la Russia i carri armati. Tornati nella storia recente, degli anni ’90, da protagonisti nella storia russa dopo essere stati i distruttori di ogni sistema di socialismo reale (Praga ’68 e non solo).

Nel 1990 compaiono i tank dei duri del Pcus che tentano un improbabile golpe e, mentre Gorbaciov che aveva impegnato la vita a salvare il salvabile, è costretto a riparare proprio in Crimea, Eltsin, il padrino di Putin, dopo i primi scontri a Mosca è su un carro amato che arringa la folla: salva la Russia, affonda l’Urss e umilia Gorbaciov riportato e rendere conto a Mosca; e nel 1993 è il salvatore della patria Eltsin che manda i carri amati a sedare la rivolta del Congresso dei deputati del popolo, l’istituzione democratica voluta da Gorbaciov: bombarda il nuovo parlamento con centinaia di vittime nonostante il forte sostegno popolare alla protesta. Da lì inizia anche la storia dei tank che faranno terra bruciata in Cecenia, dentro la Federazione russa.

Adesso nelle sedi Nato e occidentali c’è, insieme ad un irresponsabile compiacimento, anche una profonda preoccupazione. Resta infatti da chiedersi se tutto questo fermerà la guerra in Ucraina o, visti gli sviluppi, la allargherà com’è più credibile. Non solo perché Putin ha già chiamato al soccorso la Comunità degli Stati indipendenti, subito la Bielorussia di Lukascenko in verità già coinvolto, l’Uzbekista e il Kazakhistan che ha aiutato a risolvere una rivolta interna, mentre è in fibrillazione il delicato fronte della Moldavia con dentro la Transnistria russa. Ma perché ritorna minacciosa la questione delle questioni. Vale a dire l’arma nucleare.

Che vede testate e comandi atomici proprio nella enclave di Kaliningrad che lega la Russia a Pasi Baltici. Se la gravità del caos militare e la «mediazione» sulla conduzione della guerra in Ucraina raggiunta tra Putin e Prigozhin porterà ad una nuova contesa, magari alla chiusura, di quel corridoio, si porrà subito il nodo strategico e micidiale dell’arma nucleare, di chi la controlla, di come e quando impiegarla visto che ne è stato più volte minacciato l’uso.

Ecco che il ruolo pericoloso della Nato si riaffaccia sulla scena. Ma ormai, nonostante siamo su un baratro aspettando la «vittoria nella guerra», anche la deterrenza atomica ha perso ogni significato.

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