Lavoro

Navigator, per il governo Meloni non sono prorogabili

Navigator, per il governo Meloni non sono prorogabiliRoma, Ministero del lavoro: una protesta dei navigator – LaPresse

Il caso Finisce l'esperienza dei navigator. Per il ministero del lavoro "non è allo studio nessuna norma per il loro riutilizzo". Indagine sulle ragioni dell'ostilità verso le figure delle "politiche attive del lavoro" nel Workfare all'italiana

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 2 novembre 2022

I 946 navigator superstiti con il contratto scaduto il 31 ottobre scorso non saranno «prorogati». «Eventuali ulteriori utilizzi degli ex navigator richiederebbero l’approvazione di una apposita norma che non allo studio».

Lo ha sostenuto ieri il ministero del lavoro dopo un pomeriggio di caos sollevato da presunte fonti riprese da alcuni giornali online. Per un’ora si è parlato di una proroga dei contratti fino al 31 dicembre. Ipotesi che ha scatenato su twitter l’opposizione calendian-renziana che vuole il licenziamento di questi funzionari delle politiche attive de lavoro mai realmente esistite per ragioni strutturali, costituzionali oltre che di opposizione della politica al collocamento pubblico, e non privato praticato attraverso le agenzie interinali. Un progetto che potrebbe trovare maggiore spazio ora con l’estrema destra postfascista al governo.

La neo-ministra del lavoro Marina Calderone avrebbe chiesto alle regioni solo una ricognizione sul numero dei 946 navigator surperstiti. In partenza nel 2019 erano più di 2.700. L’operazione ministeriale si è resa necessaria sia perché i governi precedenti hanno evitato di risolvere il problema con le regioni, sia per la scadenza degli ultimi contratti avvenuta il 31 ottobre. Per i sindacati Nidil Cgil, Felsa Cisl, Uiltemp «la richiesta conferma che anche in sede ministeriale c’è forte preoccupazione per la tenuta dei livelli essenziali delle prestazioni su questi servizi, a rischio paralisi».

“Se il loro contratto non dovesse essere rinnovato, i beneficiari del reddito di cittadinanza resterebbero senza operatori di riferimento» ha sostenuto la Cgil Marche il 24 ottobre scorso. Secondo i dati dell’Ires, nel 2021 i beneficiari della misura sono stati 45mila. Di questi, quelli occupabili, ovvero soggetti al “Patto per il Lavoro”, hanno spesso condizioni che rendono difficile un’immediata collocazione lavorativa in quanto disoccupati di lungo periodo, caratterizzati da basso livello di istruzione e da limitate competenze professionali.

Una descrizione che risponde al quadro nazionale descritto dall’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) nell’ultimo rapporto di ottobre sullo stato di attuazione del “reddito di cittadinanza”. Dalla rilevazione emerge che il 75% degli “occupabili” – concetto che non è affatto sinonimo di “occupazione” – risiede al Sud o nelle Isole, il 57% sono donne, il 48% ha più di 40 anni (solo il 34% meno di trenta) e il 10% è straniero. Queste persone sono tutt’altro che “occupabili”, cioè non corrispondono affatto al soggetto astratto che risponde ai criteri stabiliti dallo Stato al servizio delle domande congiunturali delle imprese.

L’ostacolo che impedisce la realizzazione di questo ideale è rappresentato da un problema molto difficile da governare, perlomeno con le tecniche adottate dalla mentalità neoliberale: la lontananza dal “mercato del lavoro” spesso pluriennale di queste persone  disumanizzate e chiamate”percettori del reddito”. Per l’Anpal il 73% dei 660mila ritenuti “abili al lavoro”, e che hanno sottoscritto un “patto per il lavoro”, non hanno avuto esperienze lavorative negli ultimi tre anni.  Tra chi l’ha avuta, nel 36,3% dei casi è durata meno di tre mesi, anche a causa delle caratteristiche di un “mercato del lavoro” strutturalmente organizzato sulla precarietà di massa, i bassi salari e l’intermittenza lavorativa senza alcuna significativa garanzia sociale. Inoltre risulta basso anche il livello di istruzione: il 70,8% di queste persone ha la licenza di terza media.

La situazione caotica dei navigator varia di regione in regione. In questi anni, a seconda del colore politico e della maggioranza al governo, si è assistito a una paurosa disparità di trattamento che rispecchia la reale condizione delle politiche attive del lavoro. Ad esempio, la Sicilia ha prorogato i contratti al 31 dicembre 2022. Termine entro il quale dovrebbe concludersi il concorso per le assunzioni previste nei centri per l’impiego regionali. Questo avrebbe dovuto essere l’iter previsto un paio di governi fa, ma i concorsi sono arrivati con il contagocce e non tutte le regioni li hanno banditi o espletati sul serio. E’ uno degli effetti di uno dei problemi strutturali del collocamento pubblico in Italia devastato dalla concorrenza tra lo Stato e le regioni anche sulle politiche occupazionali. Questo è il nodo principale che impedirà anche al governo Meloni di trovare una soluzione a un problema che impedisce la razionalizzazione delle politiche del Workfare anche in Italia.

A meno che, come ha annunciato in campagna elettorale la presidente del consiglio Giorgia Meloni, si voglia ricorrere all’insufficiente e incerto apporto delle agenzie interinali interessate al business della disoccupazione e della formazione professionale. C’è anche l’ipotesi, già varata dal governo Draghi (con Cinque Stelle e Pd a sostegno), per cui saranno le imprese ad assumere direttamente e dunque a denunciare i “beneficiari” che rifiuteranno una presunta “offerta congrua di lavoro”. L’emendamento, va ricordato, fu presentato proprio da Fratelli d’Italia. Il nuovo governo, con o senza i navigator, potrebbe ricominciare da qui: tutto il potere alle imprese.

La torta da spartirsi è cospicua: ci sono oltre 4 miliardi che dovrebbero essere distribuiti dal «Piano nazionale di ripresa e resilienza» (Pnrr). Sempre che arrivino, agli intermediari e alle imprese. Non ai poveri, ai precari e ai disoccupati.

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