I Un «fallimento totale». Così ieri, di nuovo, in una pillola elettorale diffusa da Facebook Giorgia Meloni ha definito il cosiddetto «reddito di cittadinanza» che tale non è. Il «reddito di cittadinanza» sarebbe un’erogazione monetaria diretta anche a tutti i residenti su un territorio. La truffa linguistica organizzata dai Cinque Stelle con la Lega nel governo «Conte 1», successivamente condivisa con il Pd prima contrario e poi favorevole a partire dal «Conte 2», è un sussidio di povertà di ultima istanza vincolato alle «politiche attive del lavoro» che però non sono mai partite per gravi problemi costituzionali (la concorrenza tra Stato e regioni sulle politiche occupazionali) e l’arretratezza storica italiana sulle tecniche neoliberali di gestione dei poveri e dei disoccupati.

IL «REDDITO DI CITTADINANZA» ha fallito, ha proseguito Meloni, «come strumento di lotta alla povertà che doveva essere abolita e invece ha raggiunto i massimi storici e ha fallito come misura di politica attiva». Con questo doppio assunto la leader di Fratelli d’Italia ha contestato i «9 miliardi all’anno» giudicati uno spreco, e ha prospettato un ridimensionamento del sussidio a tutti tranne a chi ha «60 anni, disabili, famiglie senza reddito che hanno minori a carico». Per gli altri, cioè la stragrande maggioranza dei percettori, «quello che serve è la formazione e gli strumenti necessari a favorire le assunzioni». Nella visione di Meloni questa idea astratta di «formazione» comporterebbe «un lavoro dignitoso e ben retribuito che possa aiutare a crescere indipendentemente dalla condizione dalla quale si proviene – ha aggiunto – Questo fa uno Stato giusto».

AL DI LÀ di questa visione «etica» dello Stato, ricorrente anche in altri populismi presenti in Italia, le finalità di Meloni sono condivise da i partiti neoliberali, il 90 per cento dei candidati al prossimo parlamento. Con accenti diversi, anche chi parla di «abolirlo» in realtà è d’accordo nel «riformare» una misura che ha cercato di coniugare l’«inclusione sociale» con una formazione professionale. Ma questo nesso è inalienabile nelle attuali politiche di Workfare che collegano il sussidio a un obbligo mascherato da «atto sociale» che dovrebbe trasformare i «poveri» e i «marginali» in «cittadini responsabili». Pena la perdita del sussidio, multe, e persino in alcuni casi il carcere. I limiti di questa politica sono emersi in Germania Inghilterra o Francia. Figuriamoci in Italia dove la transizione alle politiche neoliberali di questo tipo è irrisolta e disfunzionale. Questa contraddizione può trasformarsi a nella «trappola della povertà» indotta da tutti i sistemi sociali premio-punitivi come lo è il «reddito di cittadinanza». Dagli Usa all’Europa il problema è lo stesso: l’inclusione non corrisponde a un’attivazione sociale, e viceversa. Questo problema, per di più con la crisi e la stagflazione in arrivo probabilmente, sarà un rompicapo senza soluzione anche per un governo a guida Meloni.

IN QUESTO ORIZZONTE si è mosso il governo Draghi, diminuendo a due i rifiuti di lavori «congrui» possibili. Forse Meloni al governo porterà i rifiuti a uno. Qualora ci sia qualcuno che offrirà un lavoro, il beneficiario del sussidio potrà trasferirsi a centinaia di chilometri di distanza. Se rifiuta, perde tutto. Meloni era all’opposizione di Draghi, ma condivide la stessa cultura, e le indicazioni presenti nella legge pentaleghista che ha istituito il «reddito» nel 2019. Probabilmente questa legge sarà riscritta, e il «reddito» cambierà nome e funzione. Tuttavia i problemi del Workfare resteranno. In ogni caso, a quanto sembra oggi, sarà mantenuta una forma di assistenza compassionevole e penalizzante dei poveri.

NELL’ULTIMO ANNO la violenza verbale di Meloni è stata esemplare di questa ideologia. Il 5 settembre 2021 al forum Ambrosetti a Cernobbio, ha detto che il reddito di cittadinanza è un «metadone di stato». La metafora implicherebbe che tutti i percettori di reddito sono «eroinomani». Più di recente, il 30 luglio scorso, Meloni ha evocato il valore «educativo» del «lavoro» e quello «diseducativo» e «contro-producente» del «reddito». Su questi punti Meloni è in sintonia con altri esponenti del neoliberalismo più aggressivo, a cominciare da Matteo Renzi (Italia Viva) che promette l’abolizione addirittura via referendum. Per lei «va abolito e sostituito «con la ricetta che più assumi e meno paghi». E poi ha aggiunto che lo Stato «non disturba chi lavora» e che «la ricchezza la creano le imprese e i lavoratori, non i decreti». Sono affermazioni che riflettono la trasformazione delle destre post-fasciste. Il «corporativismo sociale» della destra storica è stato innestato sul Dna reaganian-thatcheriano. L’unica corporazione residuale è quella degli imprenditori ai quali Meloni assegna il ruolo di «creare il lavoro», come se la forza lavoro non avesse autonomia e fosse un gregge da guidare. Meloni ha così aggiunto l’impresa al pantheon tradizionale delle destre estreme e conservatrici: Dio, patria, famiglia, proprietà e confini. È un’operazione in corso dai tempi di Nixon fino a Trump. Oggi è stata adattata al contesto italiano.