Tradizione vuole che le elezioni parlamentari di metà mandato siano un referendum sul presidente in carica. In questo caso Joe Biden giunge al giro di boa con record storici negativi di gradimento e la pesante zavorra di una crisi economica precipitata anche dalla guerra, adottata e vigorosamente promossa dal Commander in Chief e dal complesso bellico che guida.

La campagna repubblicana per riprendersi la maggioranza nel Congresso verte su un collaudato repertorio di destra: tasse, sicurezza, stato minimo. Ma l’apparenza di normalità non deve ingannare. Il dato saliente dei midterms (come hanno sottolineato in chiusura di campagna sia Biden che Obama) è pur sempre il precipizio su cui vacilla ancora la “democrazia fondante” dell’occidente, due anni dopo il tentativo di golpe del 6 gennaio 2021.

La contesa fra i Democratici di Biden e il Gop mutato in partito nazional populista dall’ultracorpo trumpista, ricalca quella in atto fra destre identitarie e liberismi “moderati” in molte democrazie occidentali. Nella variante americana però uno dei partiti componenti lo storico sistema bipartitico è ora apertamente antidemocratico.

Il partito repubblicano ha adottato l’inibizione e la manipolazione delle elezioni come legittimo strumento politico. La disinformazione sulle “elezioni rubate” e i “massicci brogli”, amplificata da un implacabile apparato di propaganda e social, ha avuto l’esito desiderato, minando la fiducia su cui è predicato il sistema democratico.

Questa settimana il copione dei ricorsi e dei risultati respinti e contestati – forse di violenze – potrebbe essere destinato a ripetersi. La metastasi complottista pilotata dal trumpismo ha prodotto una fondamentale trasformazione che rende legittimi e inevitabili i paralleli non solo con storiche regressioni totalitarie ma con i periodi più bui della storia americana, il segregazionismo, il terrorismo razzista, l’oligarchia dei robber barons e la paranoia maccartista.

Nella mutazione genetica del conservatorismo in culto fanatico c’è l’orwelliana volontà di riscrivere la storia e la violenza fondante dei romanzi di Cormac McCarthy. Quando Biden, raccogliendo l’analisi sempre più diffusa fra studiosi, storici e intellettuali definisce la deriva estremista come “semi-fascism” è difficile dargli torto.

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La post politica sovranista e identitaria esprime qualcosa che va oltre il programma “di destra”: uno stile aggressivo ed una retorica apocalittica espressa da politici/influencer che nei loro post imbracciano armi da guerra e promettono rivalsa nel nome di Dio, patria e libertà.

Gli episodi sempre più frequenti di violenza di estrema destra (l’Fbi la considera ormai principale pericolo nazionale) dimostrano come l’appello sia sempre più frequentemente raccolto. Torna inevitabilmente a mente il titolo originale del film di Paul Thomas Anderson sulla ferocia suicida del capitalismo: There will be blood.

La nuova destra americana, virata sull’intolleranza, esprime un compiacimento nella ferocia e nell’ignoranza, rifiuta il progetto multietnico di Lincoln e Martin Luther King e persegue un programma di controriforma “culturale”, per ribaltare 50 anni di progressi su diritti e uguaglianza: un “originalismo” torvo, sancito ora anche da una Corte suprema blindata dagli estremisti. È palese che dopo l’aborto toccherà a contraccezione, matrimoni gay, pari opportunità e all’istruzione pubblica.

Le crociate anti sovversive già in atto in scuole ed università degli stati trumpisti presagiscono il progetto di un prossimo Congresso repubblicano. L’agenda è stata imposta usando leggi elettorali anacronistiche che hanno amplificato la volontà di una minoranza fanaticamente ideologica. È pur vero che come altrove (vedi il Brasile) la realtà riflette una società spaccata ormai a metà, dove esautorazione e livori razziali hanno indotto fratture dogmatiche, apparentemente insanabili, esacerbate e cavalcate per profitto politico.

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Il fondamentalismo religioso è stato sdoganato come forza politica mainstream. A 40 anni dal patto reaganista con le sette evangeliche le bizzarre frange avventiste, che predicavano l’imminente apocalisse su piccole emittenti a notte fonda, sono passate da fenomeno marginale a contribuenti principali della piattaforma di partito che oggi si proclama “nazionalista cristiano”. E nelle megacurch all’estasi evangelica si sovrappone la trance degli adepti Maga (Make America Great Again) che invocano la fulminazione divina di abortisti e intellettuali.

Pensare che tutto questo riguardi unicamente un problema interno, o contare su un eventuale nuovo isolazionismo americano come vantaggio, in fondo, per gli equilibri geopolitici, non tiene conto delle lezioni del trumpismo né della sua incrollabile
dedizione all’eccezionalismo americano e l’assioma del conflitto egemonico con la Cina. E non tiene conto dell’internazionale post fascista perseguita da ideologhi come Steve Bannon (con un’attenzione speciale per l’Italia.)

Queste elezioni riguardano tutti perché riguarda tutti gli ordini democratici il rischio strutturale che rappresenta l’indebolimento della democrazia americana. Una repubblica che vacilla dal 2016 e che la prossima settimana potrebbe ricevere un’ulteriore spallata.