Burroughs, via dal virus delle parole e dal giogo dell’identità
Scrittori statunitensi Nelle avventure dei «Ragazzi selvaggi», che impazzano fra Tangeri e Timbuctù, l’autore tardosurrealista e protopunk mette tanto Genet, tanta guerriglia, e un po’ di utopia: riproposto da Adelphi
Scrittori statunitensi Nelle avventure dei «Ragazzi selvaggi», che impazzano fra Tangeri e Timbuctù, l’autore tardosurrealista e protopunk mette tanto Genet, tanta guerriglia, e un po’ di utopia: riproposto da Adelphi
Animato da un inedito terzomondismo visionario, vagamente situazionista, profondamente e misticamente omosessuale, William S. Burroughs cominciò a scrivere I ragazzi selvaggi probabilmente alla fine del 1967, durante un breve soggiorno a Marrakesh. La città marocchina è tra i set principali di questo romanzo che suona narrativamente tradizionale, dopo gli esperimenti col cut-up della precedente Trilogia Nova, benché il montaggio dei capitoli segua ugualmente un filo misterioso, ellittico, a tratti guerrigliero. Forse parla la stessa «lingua comune di geroglifici semplificati» attraverso cui branchi di bellissimi e ferocissimi boys si scambiano «droghe, armi, conoscenze» per mezzo di una rete di portata mondiale.
«Non c’è un solo posto al mondo – scrive – di cui non si trova traccia a Marrakesh», e si lancia dunque nella virtuosistica descrizione del lusso e della decadenza da tardo Impero Romano, coi completi «da clochard in lino, shabby chic, (…) tute in denim, completi da magnaccia», gli stessi dai quali probabilmente David Bowie avrebbe poi tratto ispirazione per i costumi del suo Ziggy Stardust. Il Nordafrica conosciuto negli anni Cinquanta è diventato nel frattempo meta di vacanze di un jet-set fricchettone (Mick Jagger, Jimi Hendrix, Robert Plant) in cerca di sensazioni. Burroughs lo trasfigura nella villa di Aj, il cattivo di sempre nel suo mondo sghembo, una Las Vegas nel deserto dov’è ricostruito «ogni periodo storico, ogni posto, ogni paese». Nella metafora coloniale «a tanto lusso si contrappongono beffardamente la fame e la paura e i pericoli nelle strade», avverte lo scrittore.
The Wild Boys entrò nell’immaginario popolare attraverso un pezzo della band inglese Duran Duran e il videoclip girato dal loro regista Russell Mulcahy nel 1984. Di certo, Burroughs – all’epoca cinquantenne – aveva intuito subito sia le potenzialità pop del suo lavoro sia i rischi, dal momento che in una lezione del suo corso di scrittura nel ’74 a New York disse che sperava vivamente di non ripetere «il ragazzo selvaggio e checca Peter Pan» anno dopo anno, come se fosse «la serie di Tarzan». In quel periodo, stava assumendo la fisionomia da rockstar con la quale sarebbe passato alla storia – il completo liso da impiegato anni Cinquanta e il cappello sempre in testa. Il suo palcoscenico era lo spazio libero da censure che cominciavano a offrirgli le riviste per adulti come Playboy o Esquire, la stampa musicale e quella underground.
Tra i luoghi di I ragazzi selvaggi (adesso riproposto in nuova edizione tascabile da Adelphi nella stessa traduzione di Andrew Tanzi, pp. 195, € 12,00) – Città del Messico, St. Louis, il nord Africa – e la mitologia personale che lo scrittore si andava costruendo c’era uno stretto legame. Nell’estate del 1968, inviato dalla rivista Esquire, era stato alla convention democratica di Chicago. Aveva marciato, e si era esibito in un breve comizio, aveva assistito agli scontri violenti dei ragazzi con la polizia, che cambiarono profondamente la storia della sinistra americana e la posizione dei suoi intellettuali – anche dei più eretici – Beat, poeti New Wave, musicisti rock. Dalla «seconda fila di una marcia nonviolenta» scrisse informandoci di sentirsi fuori posto, dal momento che la «nonviolenza non è il mio programma».
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Burroughs, lisergiche routine nell’imminenza della disgregazione«Esquire» aveva fatto le cose in grande: con lui a Chicago vennero ingaggiati Allen Ginsberg, lo sceneggiatore Terry Southern (Stranamore, Easy Rider) e Jean Genet, che nelle foto lo tiene sottobraccio, arrivato chissà come dal Canada senza un visto dato che gli Stati Uniti lo avevano cacciato poco prima. C’è tanto Genet, in quei «ragazzi selvaggi che si muovono tra la periferia di Tangeri e Timbuctù». E tanta guerriglia, politica, così come uno sguardo utopico – incredibilmente, per un junkie paranoico tardosurrealista protopunk come Burroughs. La descrizione nel reportage da Chicago dei poliziotti in assetto da guerriglia come un «battaglione della prima guerra mondiale» ritorna precisa in una scena del romanzo ambientata nel «lurido edificio di mattoni» a St. Louis, la sua città natale, dove la guardia nazionale si prepara alla Crociata finale contro i ragazzini. Stacco. Mamma e papà leggono un biglietto: «Vado coi ragazzi selvaggi. Quando leggerete queste righe sarò già lontano». Firmato Johnny.
Celebrato anni dopo nelle poesie dell’allieva Patti Smith, Johnny è qui l’alter ego di Burroughs, il disertore americano, affamato di vita, protagonista di lunghe grafiche scene di sesso «muy caliente molto arrapato» con i ragazzetti messicani, tra la Città del Messico minimalista ripescata da Queer e la St. Louis dell’adolescenza, da dove parte il battaglione del colonnello Macintosh che sarà massacrato dai ragazzi selvaggi in un fortino nel deserto: vendetta postcoloniale alla Beau Geste, dissoluzione autobiografica. Burroughs negli anni Cinquanta e Sessanta aveva sentito in Nordafrica il tanfo della guerra algerina, provato il terrore delle bombe. Perciò scrive: «I ragazzi selvaggi sono la conseguenza di un esubero nelle città dell’Africa settentrionale iniziato nel 1969». Nelle sue pagine, la politica anticoloniale si trasforma in cosmologia apocalittica e viceversa. Immagina il suo compito come quello di fornire ai ribelli, alieni e bellissimi, armi moderne: «pistole laser, apparecchi agli infrasuoni, Radiazione Mortale di Orgoni». Ma soprattutto qualcosa che abolisca per sempre il virus delle parole e il fardello dell’identità: «Ho mille facce e mille nomi – continua – Sono tutti e nessuno. Sono me stesso sono voi».
Più di una volta la narrazione «tradizionalista» del romanzo viene complicata dall’apparizione di una macchina da presa, il volo sopra le pagine di un enorme dolly (oggi si userebbe al suo posto un drone), la sensazione ricorrente di essere dentro un set, il voyeurismo dei frammenti porno nei peep-show, la proiezione di film di propaganda, cinegiornali, mondo-movie. «La cinepresa è l’occhio di un avvoltoio che solca il cielo sopra la macchia» si legge già nella prima riga. Il montaggio esibito come cut tra i paragrafi (non più cut-up, semmai jump-cut), la forma della sensibilità mutante che il surrealista Burroughs rincorre da sempre nei suoi esperimenti con l’artista Bryon Gysin. «Secondo la nuova concezione del film a luci rosse l’enfasi va posta sulla trama e i personaggi», ripete come un buffo e paradossale mantra.
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Trump show a New York, tra razzismo e volgaritàLa data è in fondo all’ultima pagina del manoscritto che si chiude con la frase «i ragazzi selvaggi sorridono», in corsivo. Burroughs finì di scrivere a Londra il 17 agosto 1969, la città dove aveva spostato la sua residenza negli anni immediamente precedenti al romanzo, e dove aveva sperimentato il montaggio cut-up di nastri audio, convinto della presenza di voci segrete e flussi di energie negative. Non aveva perso mai l’attrazione per la telepatia, la scrittura automatica, le droghe psichedeliche (lo yagè messicano). Mai smesso di mettere in scena la centralità assoluta del sesso che aspira alla dissoluzione finale del linguaggio, la liberazione da ogni forma di controllo mentale. Quanto al rock, secondo un aneddoto egli incontrò in uno studio di registrazione Paul McCartney, che gli fece ascoltare Eleanor Rugby, appena incisa. Burroughs ne rimase ammirato, come se in quei pochi minuti avesse riconosciuto un angolo del mondo che i ragazzi selvaggi avrebbero abitato in un tempo futuro.
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