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Ludwig Mies van der Rohe, sognammo all’ombra dell’acero nero

Ludwig Mies van der Rohe, sognammo all’ombra dell’acero neroLa Edith Farnsworth House di Ludwig Mies van der Rohe a Plano, Illinois, foto Hedrich Blessing e Jon Miller

Edizioni Monacelli Phaidon, New York Vita e leggenda della Edith Farnsworth House, la scatola di vetro e acciaio nell’Illinois del mistico maestro razionalista: Michelangelo Sabatino

Pubblicato 2 giorni faEdizione del 3 novembre 2024

Quante vite può vivere un edificio come la Farnsworth House di Ludwig Mies van der Rohe nel settantennio trascorso dal suo completamento, entro un periodo, cioè, relativamente breve per i tempi dell’architettura? Il numero è pari almeno a quello dei suoi proprietari, ci spiega Michelangelo Sabatino nel coinvolgente racconto per parole e immagini svolto in un libro da lui ideato e scritto in larga parte, ma dove sono accolti anche contributi di altri conoscitori del Moderno americano, paesaggisti, e rare testimonianze di prima mano: The Edith Farnsworth House Architecture, Preservation, Culture (Monacelli/Phaidon, New York, pp. 256, euro 64,95).

La risposta può sembrare banale; non lo è affatto, però, se si considera che l’opera in questione è fra le più iconiche del razionalismo, se non dell’intero Novecento: un oggetto architettonico fissato dal suo progettista nelle forme controllatissime di un minimalismo idealista, spietatamente indifferente alle esigenze abitative, ridotto piuttosto a un’immutabile composizione cartesiana di piattaforme in pietra, travi d’acciaio e pareti di vetro, sospesa nella natura intatta di Plano, in Illinois. «It’s almost nothing», avrebbe detto Mies, con pari icasticità di parola.

Questa Farnsworth House mentale è l’immagine che da subito s’impone nell’abbondante pubblicistica, risultato a sua volta di un’attenzione immediata, quasi ossessiva, da parte di professionisti, studenti di architettura, appassionati: fin dalla mostra al MoMA del 1947, con cui l’ultimo direttore del Bauhaus, passato all’IIT di Chicago, è indicato come guida della nuova stagione del modernismo statunitense. In quel momento il progetto, commissionato due anni prima, è poco più che un’idea, lungi dall’essere messa in pratica, ma già riassunta dal modellino lì esposto con le tre strisce parallele del soffitto, del pavimento e della terrazza, e le quattro coppie di pilastri saldati lungo i bordi (un rapporto stringente tra aspetti costruttivi e principi formali approfondito dal saggio di Dietrich Neumann); nemmeno le poche pedate delle scale sono presenti, come testimonia la dettagliatissima documentazione iconografica del volume.
Sono questi segni fondamentali, di ortogonali immacolate che incorniciano la scatola di vetro dell’abitazione, a ricorrere sistematicamente negli scatti di autori come Blessing, Sugimoto e Leibovitz, e successivamente come sfondo delle performance di Abloh e Manglano-Ovalle, o ancora di campagne pubblicitarie come quella di Edwin dei primi anni Duemila.

Edith Farnsworth

Tutte queste appropriazioni sono riassunte nel capitolo fotografico intitolato Lives, 1972-2024, esteso sino ai giorni nostri, cioè al ventennio in cui l’edificio è entrato a fa parte del patrimonio di architetture gestite dal National Trust. Il volume, però, ambisce proprio a colmare il «significativo divario tra rappresentazione e realtà», tra questa specie di vita parallela del progetto, ridotto a pura invenzione visiva, e la storia materiale di quella che era in origine una casa di vacanze di dimensioni modeste, con una connotazione quasi agraria, disegnata in funzione del paesaggio fluviale che la circonda.
È questo il senso dell’altro capitolo che completa la biografia per immagini dell’edificio, Groundwork, 1945-1972, in cui è possibile seguire di stagione in stagione, a tratti di mese in mese, la scelta del sito, il cantiere, il difficile adattarsi dell’edificio all’arrivo della sua prima inquilina, Edith Farnsworth, con i suoi cani, gli ospiti selezionati ma spesso presenti, non da ultimo grazie a un’accorta redazione di taglio narrativo delle didascalie.

Restituire credito per l’ideazione della Edith Farnsworth House – che non per caso nel 2021 ha formalmente acquisito nella titolazione il nome completo della sua committente – a una donna tanto straordinaria, fra le prime a emergere nel mondo della ricerca medica di Chicago, poi traduttrice fidata di autori come Montale e Quasimodo nell’ultima parte della sua vita, è indubbiamente un merito di questa pubblicazione. Non solo grazie all’inclusione delle freschissime istantanee scattate durante i soggiorni in compagnia degli amici, e per dire, al gusto personalissimo che ne emerge, nella combinazione di arredi comuni per l’alta borghesia americana con aggiornati pezzi di design, tutti accuratamente identificati nel volume; ma soprattutto tramite la trascrizione delle memorie inedite di Edith, redatte – su quaderni Pigna – negli anni italiani.

Da questa lettura, anzitutto, si ricostruisce il peso delle sue intuizioni per gli sviluppi del progetto: ad esempio, il ruolo assegnato nella composizione al grande albero che originariamente si curvava sulla scatola di acciaio e vetro, protagonista della pagina che ricorda il primo sopralluogo, in compagnia di Sue, moglie di un giovane collega: «penso che entrambe, quella notte, sognammo all’ombra dell’acero nero».
Effettivamente, la ricettività nei confronti della bellezza selvaggia di questo brano di Illinois (studiata nel libro da Ron Henderson) è il punto di massima vicinanza rispetto a Mies, che qualche anno dopo, dialogando con una delle voci più originali della critica di architettura novecentesca come Norberg-Schulz, dichiarerà a sua volta: «osservando la natura attraverso le pareti di vetro della Farnsworth House, essa assume un significato più profondo». Il resoconto contiene poi dettagli vivissimi che pennellano la personalità spietata e, insieme, visionariamente spirituale dell’architetto, come il lungo silenzio oracolare che precede, in una serata a casa di amici comuni, la decisione di accettare l’incarico; o il suo cappottone monumentale imbiancato dai peli del cocker di Edith, durante un viaggio in auto per raggiungere Plano. Ma si è altrettanto colpiti dai commenti che diventano progressivamente più duri, persino caricaturali, mano a mano che complicazioni finanziarie, costruttive, e poi i quotidiani problemi di utilizzo della casa, compromettono il rapporto, fino alla nota causa legale che trasformerà la Farnsworth House – ironicamente chiamata nei diari «my Miesconception» – in un caso giornalistico, ed Edith in vittima di visitatori insolenti, muniti di fotocamera.

Le eccezionali vicende dell’edificio continuano a essere raccontate nel volume descrivendo i decenni successivi alla decisione, da parte della prima proprietaria, di sbarazzarsene, con la vendita a Lord Peter e Lady Hayat Palumbo: immobiliaristi colti e veri e propri collezionisti di architettura, cioè di abitazioni progettate, anche, da Frank Lloyd Wright o Le Corbusier. Intervistati in pagine che offrono il più efficace controcanto alle durezze dei diari di Farnsworth, la loro voce è quella di autentici cultori di Mies, che restaurano devotamente la casa assistiti dal nipote di questi, Dirk Lohan, ponendo per esempio rimedio a danni delle ripetute esondazioni del Fox River, su cui si affaccia la proprietà; ma anche, trasformano quegli acri di terra in un monumentale giardino di scultura contemporanea attentamente progettato da Lanning Roper, come palcoscenico del jet-set del mecenatismo internazionale. In fondo, per Palumbo, la casa è un brano di architettura che appartiene già al mito – «come una versione contemporanea del tempio di Paestum», confessa. Perciò non oppone resistenza alle sue caratteristiche di avanguardia; solo incondizionata venerazione, ponendo le basi per quel dibattito sul restauro del Moderno di cui il recupero e la conservazione di Farnsworth House diverrà, appunto, un capitolo imprescindibile.

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