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Ettore Sottsass, assicelle e bandierine, le azioni elementari

Ettore Sottsass,  assicelle e bandierine, le azioni elementariEttore Sottsass jr nel suo studio, 1979: sparse sul tavolo alcune delle foto del ciclo Methaphors. Foto Silvia Lelli / Lelli e Masotti Archivio

A Milano, Triennale Le «Design Metaphors» di Ettore Sottsass: selezione di uno sterminato portfolio fotografico, con architetture minimaliste nel paesaggio, ritratti nudi di se stesso e della «fidanzata», negli anni settanta

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 10 dicembre 2023

Cinque anni prima della sua morte Ettore Sottsass pubblica un volume in grande formato che è una specie di diario intimo composto di fotografie in bianco e nero intervallate da disegni: Ettore Sottsass Metafore (Skira, 2002). Quelle fotografie e disegni sono ora esposti, fino al 21 aprile, nella Sala Sottsass al primo piano della Triennale, sulle pareti che tutt’intorno vedono al centro il blocco di Casa Lana, l’alloggio privato milanese progettato dall’architetto-designer alla metà degli anni sessanta.

Che Sottsass amasse la fotografia, da applicarvisi «con una dedizione e una continuità fra il giapponese e il sudcoreano», l’ha scritto Matteo Codignola, che ha curato la pubblicazione per Adelphi di tutti i suoi scritti. Quelli che ci troviamo davanti sono un frammento di quei centocinquantamila scatti che compongono il suo portfolio, ma selezionati per un progetto editoriale che la mostra non spiega. A ricostruire la storia e la singolarità di quel lavoro rinominato Design Metaphors è, in catalogo (Dario Cimorelli editore), il testo di Barbara Radice che, come già nel libro, accompagna la raccolta, la cui prima parte risale agli anni tra il 1972 e il 1974 ed è suddivisa in tre gruppi: Disegni per i destini dell’uomo, Disegni per i diritti dell’uomo e Disegni per le necessità degli animali. Seguono una serie di altri scatti eseguiti ancora fino al 1978.

I primi anni settanta coincidono per Sottsass con l’esaurirsi di quel movimento che Germano Celant chiamò Architettura Radicale, di cui Ettore fu l’indiscusso protagonista dell’area milanese con Alessandro Mendini e Andrea Branzi, da poco scomparso. I disegni e le foto risalgono, quindi, a quel periodo, durante il quale il nostro architetto-designer ha «quasi smesso di progettare – come ricorda la Radice –. Pensava, disegnava, scriveva, aveva voglia di scappare». Lui stesso scrisse: «Sentivo una grande necessità di visitare luoghi deserti, montagne, di ristabilire un rapporto fisico con il cosmo».

Accade così che nel 1970 Sottsass incontra una giovane artista catalana, Eulalia Grau, e con lei per sei anni girovaga in «lunghe peregrinazioni spagnole». Nei paesaggi deserti dell’Ebro, in quelli montuosi dei Pirenei o in Costa Brava s’ingegna in una serie di «costruzioni» minimaliste in precedenza disegnate e poi eseguite con materiali poverissimi. Sono sottili assicelle di legno legate tra loro con spaghi a formare un cubo decorato con bandierine o lenzuola, oppure scatole di cartone che compongono una scala di pochi gradini o una teoria di pilastri addossati a un grande macigno di pietra, o ancora cavi tesi su specchi d’acqua e tavole di legno posate tra le sponde di un rigagnolo.

Le installazioni sono ben meditate perché dapprima schizzate con scrupolo in un unico foglio di carta affinché l’esecuzione risulti rapida ed efficace. Le immagini, anche se così semplici, sono delle vere e proprie architetture ed esigenti del calcolo e della geometria. Non dimentica, soprattutto, quanto già considerava rilevante nel 1945: «Fissare una larghezza, una profondità, un’altezza vuol dire fissare un rapporto, ma non solo tra gli elementi puri della invenzione, ma anche tra quelli delle invenzioni vicine: nel mondo, le invenzioni vicine si dicono di solito paesaggio».

Un trentennio dopo, attraverso queste costruzioni minimaliste, prova a «riconquistare i gesti microscopici, le azioni elementari» necessari per ricomprendere il profondo significato simbolico e filosofico delle cose. Intende interrogarsi ancora sulle relazioni che queste hanno con la gente, le modificazioni che procurano alla natura, all’ambiente, al paesaggio. Le fotografie e i disegni ordinati secondo un’accorta regia approderanno a New York in occasione, nel 1976, di una mostra collettiva organizzata da Hans Hollein alla Cooper Hewitt intitolata Man Transforms. A quella serie di immagini Sottsass ne farà seguire altre: Fidanzati, dove il registro cambia con i ritratti nudi di se stesso e della sua «fidanzata», a commentare con disincanto e ironia le sorti del design e «la retorica delle patrie e delle religioni», e Decorazioni, poche immagini che fanno intendere che decorare può includere tutto, anche «la pelle della fidanzata con le strisce del sole d’estate che passa attraverso le persiane». Sono queste ultime le fotografie più malinconiche e «anche le più struggenti: Non interrogano più, riconoscono l’impermanenza, le rendono omaggio» (Radice).

Un solo scatto è isolato nella sala. È un mattone di neve con sopra deposti nastri colorati intrecciati a rami di pino. S’intitola Reliquario per i peli della mano destra di mio padre, lo accompagna una poesia ed è incipit di tutte le fotografie esposte. Solo all’apparenza queste si possono leggere come un divertissement. All’opposto, rappresentano la dimensione riflessiva propria di chi fino all’ultimo è stato deciso a impossessarsi di una «tecnica magica» in grado di comprendere i misteri, le incongruenze e le paure della vita: aspetti lasciati insoluti dalla scienza. Per farlo, Sottsass ha scelto «un modo primitivo» di guardare la materia, la forma, il colore. Di questo atteggiamento, le sue metafore sono la quintessenza, grado zero del design e dell’architettura dal quale ripartire per altre utopie.

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