Elon Musk aveva già comunicato, via tweet ovviamente, di voler “sfoltire” l’organico dell’azienda del 75% dei dipendenti. Poche ore dopo la sua entrata nel quartier generale di Twitter a San Francisco erano rotolate le teste dei principali manager, mentre nella truppa si diffondeva una crescente inquietudine. Ieri l’annuncio temuto: licenziamento immediato e in tronco di oltre 3700 lavoratori, più della metà dell’organico. La decisione, clamorosa anche per Silicon Valley, ha già provocato una class action dei dipendenti che descrivono l’atmosfera introdotta dalla nuova direzione come «crudele e tossica» e reclamano come minimo i 60 giorni sindacali di preavviso – si esprimerà un tribunale di San Francisco.

È CARATTERISTICA, la mancanza di diplomazia dell’uomo cui oltre all’intuizione tecnologica si ascrive il genio imprenditoriale. Ma l’avventura Twitter, iniziata fra titubanze sulla stessa acquisizione per 44 miliardi di dollari, rischia di risolversi in un disastro di immagine per il titolare di Tesla e Space X, e per la sua reputazione di fine affarista.

Durante il sofferto takeover della piattaforma, Musk ha sposato posizioni progressivamente più spregiudicate. Prima si è pronunciato a favore della riammissione al social dell’ex presidente Trump, bannato in seguito al tentato golpe fomentato in gran parte a mezzo Twitter. Poi in una serie di polemici tweet ha denunciato la deriva «estremista» dei liberal (solo la radicalizzazione a sinistra, ha scritto, poteva spiegare come lui potesse apparire reazionario).

In verità Musk non sembra avere bisogno di aiuto alcuno per dire e fare “cose di destra”. Come quando, ad esempio, nel pieno della pandemia, ha intimato agli operai della fabbrica Tesla di Fremont in California di rimanere alla catena di montaggio malgrado il lockdown proclamato dalla autorità sanitarie. A giugno di quest’anno è tornato a minacciare i suoi impiegati di licenziamento in tronco se non avessero fatto immediato ritorno agli uffici dopo mesi di regime a distanza. In Germania ha pubblicamente schernito gli ambientalisti che contestavano la nuova gigafactory di Berlino-Brandenburgo.

IN APPENA UNA SETTIMANA di gestione di Twitter, il miliardario superstar è parso deciso a proiettare l’immagine di una primadonna volubile e volitiva. Da semplice utente (ma con 114 milioni di follower) Musk aveva ripetutamente criticato la politica di moderazione dei contenuti, sparando sui «nemici della libertà di parola» e sulla «censura», argomenti diventati cavallo di battaglia della destra nelle campagne elettorali dei midterms.

PER I COMPLOTTISTI reinventati come difensori della libera espressione, l’avvento di Musk promette di riaprire una finestra da cui rientrare in Twitter. Musk sostiene di non aver ancora messo mano agli algoritmi di moderazione, ma nei giorni seguiti al suo insediamento si è già registrata un’impennata di hate speech come un coro liberatorio della curva degli ultras liberisti.
Fra le critiche generali il nuovo proprietario, che nel frattempo ha sciolto il consiglio d’amministrazione dichiarandosi amministratore unico, ha deciso di affidare la decisione sul reintegro di Trump ad un’apposita commissione. E sul suo feed ha pubblicato il fake di un sito complottista sull’attaccoal marito della speaker Nancy Pelosi – irresponsabile per un troll, peggio per un amministratore.

IN QUESTI GIORNI l’escalation è stata quotidiana. Musk ha pubblicamente meditato l’introduzione di un abbonamento di $20 dollari per la certificazione degli account prestigiosi (la famosa spuntatura blu). Dopo un’alzata di scudi generale, il “demiurgo tech” si è azzuffato con alcune “grandi firme” della piattaforma. Con Stephen King ha “contrattato” da $20 a $8 il prezzo dell’abbonamento, e ha irriso come tirchia la stella dei democratici di sinistra Alexandria Ocasio Cortez, scesa in campo contro il pay wall. Dopo litigi personali con una serie di utenti di lusso, Musk ha polemicamente adottato la sarcastica qualifica di “centralino ufficio reclami.”

Lungi dall’essere un ragionamento razionale su possibili alternative all’imperante modello di contenuti gratuiti per profitto pubblicitario, la crociata di Musk ha preso la forma di stizzita diatriba, inducendo molti utenti a meditare un esodo volontario e ponendo il problema di un efficace articolazione del dissenso da parte degli utenti che il contenuto lo creano. L’effetto complessivo è stato di riproporre il problema della privatizzazione del discorso pubblico e la sua esposizione ai capricci del mercato e della “disinformazione partecipata” (nel caso Twitter hanno suscitato l’attenzione delle autorità federali anche gli ingenti investimenti sauditi).

TRE GIORNI FA, esponenti di associazioni per i diritti civili hanno incontrato Musk ed espresso le proprie preoccupazioni per l’ondata di razzismo e antisemitismo tornato a dilagare in piattaforma. Il patron ha fornito assicurazioni ma il suo avvento è stato come gettare benzina su una questione con cui, dai tempi di Brexit, le democrazie stentano a fare i conti. La tensione fra libera espressione e disinformazione strumentale è contestuale alla crisi dell’informazione e delle stesse democrazie. Lo scontro su Twitter, ingigantito dalla hybris smisurata di Musk, avrà forse il pregio di rendere ineludibili alcune problematiche fondamentali collegate alla “frattura epistemica” che in regime di regressione populista sottende oggi tanta politica e vita pubblica.