La pubblicità divora internet
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La pubblicità divora internet

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Social In «La réclame dell’apocalisse» Marco Carnevale «segue il denaro» e analizza i meccanismi dell’AdTech, il settore delle inserzioni online dal valore globale di circa 750 miliardi di dollari

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 4 luglio 2024

Nel 2005 un gruppo di artisti digitali (Paolo Cirio, Alessandro Ludovico e Ubermorgen) ha lanciato un progetto intitolato Google Will Eat Itself: Google divorerà se stesso. Un nugolo di bot informatici “cliccava” proditoriamente i banner pubblicitari che avevano nascosto su alcuni siti web. Ogni dollaro guadagnato veniva automaticamente investito nell’acquisto di azioni di Google.

L’idea era quella di renderla un’azienda pubblica e secondo le loro stime l’obiettivo sarebbe stato raggiunto in circa 202 milioni di anni. All’epoca Google era da poco quotata in borsa e il suo valore sul mercato era circa un centesimo di quello attuale. Quella provocazione artistica, però, ha anticipato lo scenario attuale.

OGGI LA PUBBLICITÀ rappresenta il 75% dei ricavi di Google, quasi il 90% di quelli di Meta (Facebook e Instagram) e di TikTok.

Il fatturato globale dell’AdTech (la pubblicità online) è stimato intorno ai 750 miliardi di dollari. È una cifra enorme, ma in pochi si sono presi la briga di seguire il denaro e capire i meccanismi di un settore che oggi raccoglie più della metà di tutti gli investimenti pubblicitari.

Lo ha fatto Marco Carnevale, uno dei maggiori pubblicitari italiani (sue le campagne «Rai. Di tutto. Di più» e «Per tutto il resto c’è Mastercard»), in un pamphlet dal titolo La réclame dell’apocalisse (Prospero editore, 17 euro).

SE È VERO che la pubblicità è l’ultimo strumento legale di concorrenza sleale, con la pubblicità digitale si è passato il segno. Secondo Carnevale, non si dovrebbe nemmeno parlare di pubblicità, perché l’AdTech ha davvero poco a che fare con la dimensione pubblica.

Non solo perché i livelli di targetizzazione sono così minuti da arrivare a stalkerare il singolo consumatore, ma soprattutto perché le piattaforme digitali sono walled garden, giardini recintati. Nessun organismo terzo può verificare i dati relativi alle campagne, con il risultato che solo chi vende quegli spazi pubblicitari può fornire i numeri, talvolta inventandoli. È successo a Facebook nel 2017, quando ha dichiarato agli inserzionisti di poter raggiungere 65 milioni di giovani statunitensi tra i 20 e i 29 anni, dimenticando che in quella fascia di età il totale degli americani è inferiore a 46 milioni.

UN “ERRORE” che probabilmente deriva dal fatto che la metà di tutto il traffico di Internet è generato da bot, piccole intelligenze artificiali che simulano l’attività degli utenti per raccogliere informazioni, copiare contenuti, condurre attacchi dannosi ma anche “visualizzare” o “cliccare” pagine pubblicitarie.

PER AFFRONTARE questo problema, il Media Rating Council, l’organizzazione no-profit che dovrebbe garantire l’accuratezza delle valutazioni dei media, ha imposto che un annuncio, per essere conteggiato, debba essere visibile per almeno il 50% e per almeno 1 secondo (2 secondi consecutivi se si tratta di un video). Una soluzione paradossale, perché in questo modo vengono conteggiati annunci in cui non è possibile nemmeno leggere il nome del prodotto.

Secondo Marco Carnevale, il risultato è un proliferare di contenuti «essenziali, iperleggibili e prontamente disponibili, tutt’altro che approcci indiretti, laterali, spiazzanti». È il trionfo delle call to action: clicca qui, scopri di più, chiedi un preventivo. La creatività finisce per essere punita a esclusivo vantaggio della narrazione ideologica delle BigTech, che promettono il contatto diretto con qualsiasi consumatore.

Ma è un contatto privo di contenuto: sono visualizzazioni, like, cuoricini, quelle che vengono chiamate vanity metric, numeri a cui non corrisponde una reale capacità di valorizzare le marche o fidelizzare il cliente. È un ritorno al hard selling, uno stile di comunicazione vecchio di quasi cento anni, quando alle aziende bastava presentare il prodotto per venderlo a una classe media con crescente disponibilità di spesa.

LA TESI di fondo del libro, supportata da diversi esempi, è che si tratta di investimenti in gran parte inutili e che molte aziende se ne stanno accorgendo.

Si potrebbe pensare che il problema sia solo delle aziende che investono in modo inefficace e di una generazione di “vecchi” pubblicitari che non vedono riconosciuto il valore della creatività. Tuttavia, ci sono due aspetti che coinvolgono tutti.

Il primo è che il bombardamento di annunci pubblicitari su ogni social network o sulle pagine di quasi tutti i siti web (non del manifesto) ha raggiunto livelli che la televisione commerciale non si era mai permessa di toccare.

La percentuale di persone che clicca su un banner è scesa dallo 0.1% allo 0.05% in meno di 10 anni. La risposta pavloviana è stata quella di trasformare ogni sito in una giungla in cui farsi largo tra i banner con il machete per arrivare al contenuto cercato.

IL SECONDO aspetto è stato sottolineato da Bob Hoffman, autore e pubblicitario americano e di alto livello tra i più citati nelle pagine del libro di Carnevale. Gli algoritmi utilizzati dal AdTech mirano a trattenere il visitatore più a lungo possibile sui social network. «Più tempo un visitatore trascorre nel recinto, più denaro la piattaforma può realizzare dalla vendita di spazi pubblicitari», e per farlo si alimentano le predisposizioni degli utenti, proponendo contenuti sempre più divisivi.

Secondo un rapporto interno di Facebook, «il 64% di tutti i gruppi estremisti è stato seguito a causa dei nostri strumenti di raccomandazione». Per Hoffman il mondo della pubblicità e quello delle istituzioni devono «affrontare ciò che l’AdTech sta facendo alla nostra società e agire immediatamente e decisivamente per riformarlo».

Non è un pericolo ma un disastro. Se Google, Facebook e le altre BigTech non si divoreranno da sole a causa della loro crescita continua e incessante, è possibile che finiranno per divorare tutti noi.

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