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L’intelligenza artificiale e i suoi rifiuti

L’intelligenza  artificiale e i suoi rifiuti

Materia oscura Uno studio su Nature Computational Science stima la quantità di rifiuti elettronici generati dalla diffusione dell’intelligenza artificiale di qui al 2030. Le scorie, tra cui molte sostanze tossiche, potrebbero essere moltiplicate per mille in solo cinque anni

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 1 novembre 2024

L’intelligenza artificiale non inciderà solo sul mondo del lavoro e sulla psiche, ma anche sull’ambiente. E probabilmente nel modo più brutale di tutti: i rifiuti, molti dei quali tossici. È l’avvertimento che arriva da uno studio pubblicato questa settimana dalla rivista Nature Computational Science e dedicato ai rifiuti elettronici derivati dalla diffusione dell’intelligenza artificiale di qui al 2030. In particolare, gli scienziati che lavorano nelle università di Pechino, Cambridge e Herzliya (Israele) hanno studiato l’impatto di un tipo particolare di AI: le cosiddette intelligenze artificiali generative, quelle che producono testi come chatGPT o immagini come Sora. Strumenti potentissimi, ma che richiedono processori sempre più potenti, numerosi e destinati a rapida obsolescenza a causa della crescente quantità di dati e informazioni da gestire.

I numeri sono impressionanti, sebbene ci sono notevoli variazioni tra i vari scenari considerati dagli autori. I sistemi di intelligenza generativa, che oggi producono circa 2.500 tonnellate all’anno di immondizia elettronica, nel 2030 potrebbero generare tra le 400 mila e i 2,5 milioni di tonnellate annue di rifiuti a seconda di quanto si diffonderà l’uso di queste tecnologie.
Nel peggiore dei casi i rifiuti generati dall’IA saranno moltiplicati per mille in soli cinque anni. «Per dare un’idea, equivale a buttare in un anno tra 2,1 e 13,3 miliardi di iPhone 15» scrivono gli autori dello studio. Da sola, l’intelligenza artificiale nel 2030 rappresenterà tra il 3 e il 12% di tutti i rifiuti elettronici, secondo le proiezioni pù accreditate. «Dato che i data center dedicati all’intelligenza artificiale sono fortemente concentrati dal punto di vista geografico, questi flussi di rifiuti saranno concentrati principalmente negli Usa (58%), in Asia Orientale (25%, soprattutto in Cina, Giappone e Corea del Sud) e Europa (14%).

Una parte rilevante di questi rifiuti riguarda plastiche e metalli pericolosi. Nello scenario pessimistico, solo a causa di chatGPT e colleghi da qui al 2030 potrebbero finire nell’ambiente 300.000 tonnellate di piombo e 450 di cromo – due metalli tossici – più cinquantamila tonnellate di plastica. Sono i principali materiali utilizzati nella fabbricazione di batterie e dei circuiti integrati. Il rischio, scrivono gli studiosi, è che «i rifiuti elettronici legati all’intelligenza artificiale vengano esportati dagli Stati con una maggiore consapevolezza ambientale verso quelli a reddito medio e basso, danneggiandone l’ambiente e la salute» come già avviene con il resto dei rifiuti.

La buona notizia è che le strategie per minimizzare l’impatto ambientale dei rifiuti dell’IA esistono. Le unità di calcolo possono essere riciclate dalle grandi imprese dell’intelligenza artificiale, e questo ne allungherebbe il ciclo di vita. Inoltre, non tutti gli algoritmi sono uguali: alcuni permettono di ottenere la stessa performance informatica sfruttando un minore uso di risorse materiali ed energetiche rispetto ad altri. Se sfruttate a fondo, tali accortezze consentirebbero di ridurre i rifiuti elettronici anche dell’86%. Per instaurare questa economia circolare, tuttavia, secondo gli autori è necessario «coinvolgere da subito gli attori principali dell’intelligenza artificiale generativa» – cioè i colossi dell’informatica come OpenAI, Microsoft, Google, Apple, Amazon, Facebook – «tracciare i flussi frontalieri di rifiuti elettronici» e incoraggiare l’«autocertificazione di sostenibilità dei data center». Ma questo è un compito che spetta alla politica.

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