Tagliare le tasse con i risparmi presi dalla spesa pubblica. Questa è la politica economica del governo. Lo ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella conferenza stampa del 4 gennaio scorso. La proposizione va analizzata a fondo. È tipicamente neoliberale: la riduzione della spesa pubblica e quella delle tasse porterebbero alla crescita. Tesi insostenibile, per di più in un periodo di crisi, in mancanza di crescita, investimenti e di un riequilibrio del sistema fiscale in senso fortemente progressivo. La strategia è recessiva ed è una spinta all’accrescimento delle diseguaglianze.

SENZA CONTARE che l’ultima legge di bilancio finanzia il taglio del «cuneo fiscale», cioè il «taglio delle tasse» di cui parla Meloni per i redditi dipendenti sotto i 35 mila euro, facendo maggiore deficit (+15,7 miliardi di euro) a carico di tutti i contribuenti. Il taglio viene finanziato anche con i tagli lineari agli enti locali (600 milioni ogni anno per i prossimi tre), ai ministeri (meno 5% della spesa), al servizio civile (meno 200 milioni), alla disabilità (meno 350 milioni), alla cooperazione allo sviluppo (meno 700 milioni), all’ambiente (meno 280 milioni). C’è un piano triennale di privatizzazioni da 22 miliardi: un miraggio pericoloso.

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MA QUANDO IL GOVERNO, e la maggioranza, parlano del «taglio del cuneo fiscale», di cosa parlano? Di «150 euro netti in più al mese» in busta paga, mentre con le nuove aliquote Irpef ci sarebbe un aumento di «oltre 600 euro» annui. Ieri, un’analisi della Cgia di Mestre ha considerato questi dati all’interno di un ragionamento più strutturato. Il calcolo è stato fatto sul taglio al cuneo fiscale effettuato l’anno scorso 2023 e confermato per il 2024. Rispetto all’anno precedente, ha osservato la Cgia, la pressione fiscale è diminuita di 0,2 punti percentuali grazie alla rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni dell’Irpef e al modesto aumento del Pil. Analogamente dovrebbe accadere quest’anno quando il governo si augura che il peso dell’inflazione sia alleggerito. In questa situazione, scrive inoltre la Cgia, «è verosimile ritenere che la gran parte degli italiani, purtroppo, non se ne sia accorta, poiché è cresciuto il costo delle bollette, della Tari, dei ticket sanitari, dei pedaggi autostradali, dei servizi postali, dei trasporti. Insomma, se le tasse sono diminuite, il peso delle tariffe invece è salito creando un effetto distorsivo. I contribuenti non hanno potuto beneficiare pienamente della diminuzione della pressione fiscale perché, nel frattempo, sono aumentate le tariffe che, a differenza delle tasse, statisticamente non vengono incluse tra le voci che compongono le entrate fiscali».

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IL MODESTO CALO della pressione fiscale, ottenuta attraverso l’aumento del deficit, aggrava dunque i problemi e non intacca quello generale. La Cgia lo riassume in questi termini: la pressione fiscale reale è al 47,4 per cento: quasi 5 punti in più rispetto al dato ufficiale, che l’anno scorso si è attestato al 42,5 per cento. Un risultato ottenuto stornando dal Pil la componente riconducibile all’economia non osservata pari a 192 miliardi di euro: di questi 173,8 miliardi sono attribuibili al sommerso economico e altri 18,2 alle attività illegali. Insomma, i contribuenti «onesti» pagano le tasse anche perché sono costretti a farlo, trattandosi di lavoratori dipendenti. Su di loro si scarica una parte cospicua della pressione fiscale.

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LA CGIA, INOLTRE, polemizza con il ministero dell’economia che nei giorni scorsi ha stimato in 83,6 miliardi di euro il «tax gap», cioè il divario tra il gettito fiscale teorico e quello effettivo. Il ministero sostiene che i lavoratori autonomi versano solo un terzo dell’Irpef che teoricamente dovrebbero pagare all’erario. La Cgia ritiene «inattendibile» questo calcolo. Sostiene che la maggior parte delle aziende «autonome» sono composte dal solo titolare. Se quest’ultimo dichiarasse quanto il ministero presume dovrebbe guadagnare più del doppio (non 33 mila euro lordi, ma 73 mila). Per la Cgia il «tax gap» riconducibile agli autonomi non include chi tra di loro ha scelto il regime fiscale dei «minimi»: «imprese agricole, professionisti privi di organizzazione autonoma e il lavoro domestico, oltre la metà dei lavoratori indipendenti: circa 2,5 milioni».

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L’INDICAZIONE va approfondita. La tendenza a evadere e eludere le tasse da parte degli autonomi sembra essersi concentrata di più nella categoria dei «falsi minimi», le partite Iva che dichiarano più di 65 mila euro usufruendo della «flat tax» (tassa piatta) del 15%. Il problema è stato ribadito nella relazione sull’evasione fiscale e contributiva allegata alla Nadef 2022. La categoria dei «falsi minimi», formata da contribuenti che hanno potuto beneficiare della flat tax solo grazie alla sotto-dichiarazione del fatturato, è stata creata dal governo Renzi (Pd) nel 2014 ed è stata implementata dal governo «Conte 1» composto da Lega e Cinque Stelle. Oggi, la «flat tax» unica è uno degli obiettivi, tra i meno credibili e più discussi, della legge delega per la riforma del fisco del governo Meloni. Quello che vuole fare pagare meno tasse, tagliando la spesa, con l’effetto tra l’altro di allargare le disuguaglianze tra i redditi da lavoro.