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Giorgetti, il suicidio di un’austerità antieuropea

Giorgetti, il suicidio di un’austerità antieuropea

Piano strutturale «Data l’esigenza per gli Stati membri con elevato debito pubblico di seguire politiche di riduzione dei rispettivi deficit, la stance (la posizione ndr) della politica di bilancio dell’insieme dei Paesi […]

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 4 ottobre 2024

«Data l’esigenza per gli Stati membri con elevato debito pubblico di seguire politiche di riduzione dei rispettivi deficit, la stance (la posizione ndr) della politica di bilancio dell’insieme dei Paesi europei potrebbe risultare restrittiva a fronte di sfide tecnologiche e ambientali a cui le altre potenze economiche continuano a rispondere con un ampio utilizzo di risorse pubbliche». No, non è una frase di un leader dell’opposizione, ma l’incipit a pagina 1 del «Piano strutturale di medio termine» a firma del nostro ministro dell’economia.

In perfetta coerenza con l’enfasi del Piano Draghi che sottolineava solo qualche settimana fa come «le fondamenta della nostra costruzione europea siano pericolanti» e come la sfida per metterle in sicurezza sia «esistenziale», le parole di Giorgetti sembrerebbero rendere inevitabile – a livello europeo e dunque anche di ogni Stato membro dell’Unione – una strategia di investimenti pubblici volta a mettere in sicurezza un continente sempre più fragile e la cui fragilità rafforza sempre più sovranismi estremisti e distruttivi. Invece basterà leggere le rimanenti 235 pagine del Piano per essere attraversati da un sentimento di profonda inquietudine, causata dalla contraddittorietà tra quei messaggi, tanto palesemente condivisibili, di necessità di sviluppo economico e di espansione fiscale, e il lungo e ingarbugliato progetto di austerità in esso contenuto.

Un progetto che, accostato a quelli degli altri Stati membri, porta verso quella stance restrittiva che Giorgetti dice al contrario di temere, e che tarpa le ali al Continente, obbligandolo al declino e all’instabilità pervasiva in un mondo che reclama l’opposto. Mentre la Francia si prepara a fare harakiri, con politiche di austerità che aprono le porte alla vittoria, tra due anni, della destra estrema, destra a cui l’Austria si consegna oggi, e mentre la Germania si interroga impotente sul da farsi economico e su come arginare l’onda estremista proveniente da Est, è dell’Italia e del suo Piano fiscale che oggi bisogna parlare, come ulteriore tassello di un effetto domino disastroso e sempre più pericoloso per chi si proclami preoccupato per i destini di una Europa unita e aperta.

Un Piano che, innanzitutto, anche nella forma in cui è scritto, prepara il lettore al peggio, con tante pagine lessicalmente complesse e tali da allontanare e deprimere anche il più volenteroso dei cittadini e la più interessata delle imprese. Vi si trovano nuove variabili di politica fiscale, ignote a qualsiasi governo non europeo, destinate a nascondere, con arzigogolati tecnicismi, la sostanza dei loro intenti austeri. Un Piano che manca quindi della trasparenza necessaria ad una sana partecipazione democratica al dibattito su un tema così rilevante per la collettività quale è la futura politica fiscale del Paese.

Un Piano che, quanto a esiti ultimi di medio periodo, non innova in nulla rispetto all’ormai “antico” Documento di Economia e Finanza (DEF) della scorsa primavera, dato che ci obblighiamo, ancora, per il tramite delle ennesime manovre austere, a un identico deficit in discesa per il 2026 – di poco inferiore al 3% – mentre il rapporto debito su PIL rimane identico a sé stesso e attorno al 137%. In realtà invece la novità c’è, ed è l’ideazione di un percorso austero di lungo periodo, fino al 2031, a cui ci leghiamo, introducendo un elemento di ulteriore rigidità di cui certamente non si sentiva il bisogno, e che pesa ancora di più se paragonato alla posizione ampiamente espansiva degli Stati Uniti, che nello stesso arco temporale faranno deficit pubblici su PIL circa 4 volte più ampi, proprio per fronteggiare quelle sfide a cui anche il Ministro Giorgetti è certamente sensibile, ma a quanto pare non a sufficienza per decidere di affrontarle con questo Piano.

Si dirà che l’Italia ha spuntato dalla Commissione qualcosa. Nella fase di negoziazione, la Commissione europea e il governo italiano hanno in effetti discusso dei valori del c.d. moltiplicatore – l’impatto della politica fiscale sull’economia – ma non per stabilire quale fosse l’impatto positivo sul PIL di una politica espansiva, come avrebbe fatto Lord Keynes, quanto piuttosto per valutare l’ingiusta dimensione di un impatto esplicitamente negativo della voluta austerità, con l’Italia a perorare e poi a convincere la Commissione che sì, in fondo con questa manovra uccideremo l’economia, senza migliorare il debito-PIL, ma più dolcemente di quanto non stimasse Bruxelles. Insomma, la soddisfazione di suicidarsi con una pistola piuttosto che con un bazooka.

Prendiamo infine atto che è un Piano che mette al centro un nuovo indicatore, quello della “spesa pubblica netta”, autorizzata a crescere in termini nominali (+1,5%) ma condannata in realtà a scendere ogni anno in valore reale (perché cresce meno dei prezzi, in presenza di un’inflazione del 2 o più per cento). Così, anche quando il Ministero dell’Economia ci garantisce – ad esempio – che la spesa sanitaria «crescerà di più della spesa netta», per esempio dell’1,6% o 1,7%, sappiamo che finiremo sì per spendere più euro sulle macchine per le TAC, ma anche che ne acquisteremo sempre meno perché più costose. Questa spesa netta a freno tirato implica inoltre che, di fronte alla prossima riduzione del cuneo fiscale, ci si obbliga a aumentare di un ammontare analogo altre tasse o, più probabilmente, a diminuire gli investimenti pubblici e la spesa sociale di un pari valore.

Così facendo ridurremo ulteriormente la crescita del PIL (con ottimismo il Governo stima che si arriverà nel triennio 2027-2029 a un miserevole 0,7% annuo) e faremo crescere non solo il rapporto debito pubblico su PIL ma soprattutto le tensioni politiche e sociali, contribuendo in ultima analisi all’affermarsi del movimento antieuropeo nel nostro Continente, tornando verso un tipo di Europa che pensavamo di avere rimosso per sempre dai nostri peggiori incubi.

* Docente di Economia all’Università di Roma- Tor Vergata

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