Spesa pubblica, chi sale e chi scende
Il debito pubblico è periodicamente tema di preoccupazione, in particolare in Italia. Solitamente per contenerlo si esclude colpevolmente qualsiasi forma di redistribuzione delle entrate denunciando come la pressione fiscale raggiunta risulti socialmente indistintamente intollerabile. Resta così da intervenire sulle uscite di bilancio. Qui i principi austeritari la fanno da padrone con tagli perlopiù lineari sui soliti capitoli di spesa. Recentemente la Ragioneria generale dello Stato ha dettagliato l’andamento della spesa del 2024 in raffronto al 2019 (anno pre-covid) e al 2008 (anno pre-crisi). Da questo schema si possono dedurre importanti e significative indicazioni sulla direzione di marcia dell’impegno della sfera pubblica in Italia. Le voci con un differenziale marcatamente positivo sono in larga parte rivolte al sostegno all’impresa nelle sue varie articolazioni. Spicca la crescita a tre cifre della spesa per la competitività e lo sviluppo delle imprese che fa segnare un +731% dal 2008 e un +127,3% dal 2019 in termini reali; della spesa per il turismo, aumentata del 142,2% (2008) e del 561,6% (2019); della spesa per lo sviluppo e riequilibrio territoriale, cresciuta del 265,3% (2008) e del 66,3% (2019).
Contemporaneamente le voci con andamento marcatamente negativo sono tutte ascrivibili alla spesa sociale. La spesa per l’istruzione scolastica, scesa in termini reali del 15,4% rispetto al 2008 e del 10,5% dal 2019, così come la voce giovani e sport scesa del 48,3% (2008) e del 10,3 (2019). Seguono alcune voci che pur segnando una crescita più o meno lieve dal 2008, sono caratterizzate da andamenti marcatamente negativi negli ultimi 5 anni: la spesa per il soccorso civile e l’immigrazione fanno segnare rispettivamente una riduzione del 38,1% e del 20%.
Negativa in confronto al 2008 la spesa per l’istruzione universitaria, la tutela del territorio e l’ambiente, i servizi istituzionali e generali della Pa, casa e assetto urbanistico.
Questi valori relativi ci dicono dell’impegno verso l’impresa a detrimento di quello per la società. Fanno, inoltre, riferimento ad anni in cui si sono succeduti momenti di difficoltà economica, sanitaria, geopolitica. Al di là delle peculiarità dei singoli governi, il paese non ha certamente imboccato la strada dell’investimento in sanità, ricerca e istruzione e i fiumi di retorica profusi negli anni del covid sulla medicina di prossimità o sul modello tedesco (oggi anch’esso in difficoltà) sono rimasti tali. Per il rilancio del paese si è scommesso sul sostegno al profitto di un’impresa privata che già beneficia del ristagno salariale che in Italia perdura da trent’anni e che non ha paragoni con gli altri paesi europei. Un’impresa decisamente assistita, ma finora incapace di prospettare autonomamente un orizzonte di crescita e tantomeno una visione strategica.
L’attuale esecutivo non sembra proporre una discontinuità e dei proclami elettorali resta ben poco. Nella prossima finanziaria si prospettano misure «straordinariamente innovative» come l’aumento delle accise sul gasolio e interventi di contenimento della spesa pensionistica. La tassazione degli extraprofitti è stata trasformata in un informe, e poco significativo, contributo volontario di solidarietà. Per non parlare della spesa sanitaria, aumentata nominalmente lo scorso anno, ma diminuita al netto dell’inflazione o degli stipendi della pubblica amministrazione che non recupereranno nemmeno il potere d’acquisto di tre anni fa. L’unica prospettiva è quella di non disturbare l’impresa, di lasciar fare (con soldi pubblici), sperando che profitti e incentivi si trasformino in investimenti, poi in occupazione, e infine anche in nuove entrate per lo Stato e dunque in crescita di servizi e salari. Una prospettiva win win trascinata dal mercato. Un ritornello che ascoltiamo dagli anni Ottanta e che si è sempre fermato al primo tempo della partita, l’aumento dei profitti, senza arrivare mai al fischio d’inizio del secondo.
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