Quando sale sul palco, all’hotel Parco dei Principi, Giorgia Meloni è davvero contenta e si vede: «Più stanotte di due anni fa, perché allora eravamo una speranza, stavolta ci hanno votato per quello che siamo». Forse aveva sperato in qualcosa di meglio quando aveva deciso di scendere in campo. Ma aveva temuto molto di peggio nelle ultime settimane, quando si era profilato il rischio di scendere al di sotto di quel 26% conquistato quasi due anni fa alle politiche: una bazzecola sul pallottoliere, un colpo durissimo in termini politici. Soprattutto, in un quadro continentale nel quale i premier fanno la parte dei birilli al bowling, è l’unica vincente e rivendica: «Siamo il governo più forte nel G7». Nel complesso ha tutte le ragioni per festeggiare, incluso il successo del Pd: la polarizzazione, la riduzione dello scontro politico a una sfida anche personale tra lei ed Elly Schlein era un obiettivo freddamente perseguito, convinta che quel mulino porti acqua alla signora del Nazareno ma molta più ne porti a lei. Lo dichiara apertamente: «Il sistema sta tornando bipolare ed è un bene».

TANTO PIÙ SODDISFATTA può dirsi la Giorgia Meloni leader della coalizione di destra e presidente del consiglio. A quasi due anni dalla vittoria la destra aumenta i consensi. Al suo interno il primato di FdI è tale da garantirle un comando appena temperato dalle esigenze della diplomazia, persino maggiore di quello di cui godeva a suo tempo Berlusconi. La prova di vitalità di Fi è comunque un elemento per Meloni prezioso perché gli azzurri, a differenza della Lega, permettono alla destra di pescare in un elettorato moderato che altrimenti sarebbe precluso. Il solo motivo di preoccupazione è la sorte della Lega. La premier fa il possibile per nasconderlo agli occhi degli stessi leghisti: si complimenta per il risultato di Salvini come per quello di Tajani. Ma è un’impresa impossibile. Il sorpasso di Forza Italia è un colpo pesante per il leader leghista già colpito dalla scomunica di Bossi. Il rischio che al fotofinish il Carroccio stia sotto i risultati del 2022 è quasi una certezza. La premier rischia di avere da domani a che fare con una Lega terrorizzata dall’ombra del disfacimento, dunque incontrollabile e imprevedibile. Oppure con una Lega senza più Salvini, rumoroso ma inoffensivo, del quale aveva imparato a fidarsi, al comando: un’incognita.

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IL PARADOSSO, PERALTRO solo apparente, è che sul fronte europeo il dilagare della destra non facilita per alcuni versi il gioco della leader dei Conservatori, forse l’unica tra i pezzi da novanta della politica italiana per cui la partita di Bruxelles sia importante quanto e più di quella che si gioca a Roma. Popolari, Socialisti e Liberali hanno i numeri per confermare la maggioranza Ursula, magari facendo a meno proprio di Ursula, senza bisogno del sostegno dei Conservatori o anche solo dell’ala italiana dei Conservatori. È prevedibile che il Pse insisterà perché il Ppe accetti, in cambio dei suoi voti, un cordone sanitario che tenga fuori tutta la destra, anche quella apparentemente più moderata rappresentata da FdI. Per Meloni partecipare in veste di protagonista alla definizione del prossimo presidente della Commissione è fondamentale. Essere tenuta fuori dalla porta, o anche entrare dalla porta di servizio come ospite sgradita, sarebbe uno smacco pesante e non privo di conseguenze su un fronte nevralgico come quello dei rapporti tra Roma e Bruxelles in materia di conti pubblici.

L’INQUILINA DI PALAZZO Chigi avrà però carte da giocare comunque. A indicare il candidato alla presidenza, per chiedere poi all’europarlamento di esprimersi, sarà il Consiglio europeo e in quella sede i capi di governo che abitualmente danno le carte, il francese Macron e il tedesco Scholz, arriveranno con alle spalle la pesante sconfitta di queste elezioni e forze Macron si troverà in condizioni anche peggiori. Mettere all’angolo la premier del terzo Paese dell’Unione potrebbe essere impossibile. Dipenderà da quale strada deciderà di imboccare il Ppe di fronte a un dilagare della destra che minaccia di travolgere l’Unione: se provare a sbarrare i cancelli oppure, come fecero molti centristi nel secolo scorso, spalancarli.