La maggioranza ci sarebbe, e sarebbe la riedizione della Grosse Koalition formato europeo: popolari, socialisti e liberali insieme fanno circa 400 voti. Il che vuol dire autosufficienza, al netto dei franchi tiratori che sempre aleggiano su un voto segreto come questo. Al netto anche dell’ipotesi di un von der Leyen bis, che fino a stanotte sembra essere tornato in campo dopo un progressivo appannamento negli ultimi mesi, ma deve comunque essere confermato dai capi di Stato e di governo che si vedranno presto a Bruxelles. Con il paradosso del caso francese: il più grande detrattore del sistema degli spitzenkandidaten, e dunque in questo caso della riconferma di von der Leyen, è Emmanuel Macron, king maker ridotto a anatra zoppa dalla valanga Le Pen che ha travolto il suo governo, portandolo allo scioglimento dell’Assemblée Nationale.

Nella direzione di una maggioranza non inedita vanno tutte le prime dichiarazioni dei candidati capolista, a partire da Ursula von der Leyen, che sottolinea la centralità del Ppe e la necessità di continuare il lavoro fatto finora con le altre due grandi famiglie politiche europee.

«Queste elezioni ci hanno dato due messaggi» considera la leader tedesca. «In primo luogo, al centro rimane una maggioranza a favore di un’Europa forte». Ma dato che «gli estremi, a sinistra e a destra, hanno guadagnato consensi», è proprio per questo che il risultato comporta una grande responsabilità per i partiti pro-Europa. «Possiamo divergere su singoli punti, ma abbiamo tutti interesse alla stabilità e vogliamo tutti un’Europa forte ed efficace», conclude.

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Le fa eco lo sfidante spitzenkandidat per i socialisti, Nicolas Schmit: «È chiaro per noi che siamo aperti a una forte cooperazione con tutte le forze democratiche di questo Parlamento». Ricordando che «siamo il secondo gruppo che mantiene il numero dei suoi membri», si dice pronto a «negoziare un accordo per rendere l’Europa più forte, più democratica e più sicura». Questo significa, come ha sempre dichiarato dall’inizio della campagna elettorale, che «non c’è nessuna possibilità per noi socialdemocratici di collaborare con chi vuole smantellare, indebolire questa Europa che cerchiamo di costruire da decenni». L’invito a collaborare di nuovo è chiaro.

COME SEMPRE in questi casi, l’importante è fare i conti. Il totale degli eurodeputati è 720, la metà più uno fa 361. La somma dei tre grandi partiti da soli sarebbe perfino di più della cosiddetta “maggioranza Ursula”, che la spuntò per soli 9 voti, e di cui facevano parte anche elementi esterni alle famiglie tradizionali, come gli eletti M5S. Questo perché in realtà nel Parlamento eletto nel 2019 la soglia era più alta (c’erano 747 deputati: i britannici erano ancora dentro).

Guardiamo i risultati dalla prospettiva di Bruxelles, che naturalmente è diversa da quella di Roma e delle altre capitali. Stando alla proiezione dell’1,30 del mattino di oggi, il Ppe si conferma primo partito, soprattutto grazie ai buoni risultati in Germania e Spagna e Polonia e anzi guadagna 15 seggi, arrivando a 191. Leggero calo per i socialisti del gruppo S&D, fermi a 135. Dalla Francia arriva la debacle dei liberali macroniani, che contribuisce a far perdere al gruppo Renew 20 eurodeputati circa: è il peggior risultato in termini assoluti, insieme a quello dei Verdi. Questi ultimi franano da oltre 70 a 53.

BENE INVECE Conservatori e riformisti (Ecr) grazie a Meloni e al Pis polacco, anche se l’aumento sul totale dell’aula di Strasburgo è poco visibile: 72 seggi (+3). Gli identitari di Id, l’altro gruppo di estrema destra, salgono di 10 arrivando a quota 58: un buon risultato, considerando che manca all’appello AfD da poco espulsa. Il successo degli Id è dovuto non certo alla Lega, quanto all’exploit del lepeniano Rassemblement National. Stabile Left, ultimo gruppo in termini numerici, che si arricchisce però di una delegazione italiana, Avs, la prima dai tempi della Lista Tsipras. Da non trascurare i 100 eurodeputati tra i non iscritti (c’è dentro il partito ungherese del primo ministro Orbán, Fidesz, ma anche i 5S, ancora in cerca di casa europea) e new entry non affiliate (ad esempio il partito di Sarah Wagenknecht).

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L’argine saltato

DAL POMERIGGIO di ieri, l’emiciclo di Bruxelles è stato trasformato in una enorme sala stampa per più di 700 giornalisti tra radio, tv, web, agenzie e carta stampata. Lo schermo panoramico aggiorna in tempo reale circa la chiusura dei seggi nei vari paesi. Tutti gli occhi sono puntati sui grandi, che eleggono più eurodeputati: la Germania ha finito nel tardo pomeriggio, Spagna e Francia arrivano intorno alle 20, così come la Polonia. L’Italia è quella che si farà attendere più di tutti.

Tutto intorno alla sala stampa, il labirintico palazzo che ospita gli uffici dell’Europarlamento a Bruxelles, è puntellato dei quartier generali dei partiti e gruppi europei, pronti a commentare a caldo l’incedere sempre più preciso dei risultati. Dopo le 21 si susseguono le dichiarazioni dei leader dei gruppi, mentre gli spitzenkandidaten dovranno attendere oltre le 23, in modo da poter avere presente tutto il quadro, Italia compresa.

Ed è tra queste posizioni che arrivano un paio di piccole sorprese, dai due opposti lati dello spettro politico. La prima è quella della vicepresidente Ecr Assita Kanko, vagamente meloniana: «Abbiamo lavorato bene con von der Leyen, non vedo cosa potrebbe impedirci di lavorare con lei». L’altra è quella dei leader dei Verdi, l’uscente Philippe Lamberts e lo spitzenkandidat Bas Eikhout. Quest’ultimo lo dice chiaro: «Siamo delusi dal risultato», ma «pronti a prenderci la nostra responsabilità», creando «una maggioranza stabile al centro del Parlamento europeo». Se i numeri ci sono, arriva anche chi vuole aggiungersi per contribuire. Bisognerà capire come mettere insieme tutti questi pezzi.