L’articolo 106 della bozza di manovra circolata in questi giorni tratta l’«Ampliamento della rete dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr)». Per il prossimo triennio stanzia 42 milioni di euro per «costruzione, acquisizione, completamento, adeguamento e ristrutturazione di immobili e infrastrutture destinati a centri di trattenimento e accoglienza». Nei Cpr, però, di accoglienza non c’è nulla. Sono luoghi di detenzione amministrativa, cioè di privazione della libertà personale di chi non ha commesso alcun reato.

La loro storia affonda nel decreto Dini del 1995 e nella legge Turco-Napolitano del 1998 (governo Prodi). Nel corso del tempo hanno cambiato nomi e sigle: Centri di permanenza temporanea e assistenza (Cpta), Centri di permanenza temporanea (Cpt), Centri di identificazione ed espulsione (Cie). La denominazione attuale arriva nel 2017 con il «decreto Minniti-Orlando», allora ministri di Interno e Giustizia del Pd. È quel provvedimento che dispone l’ampliamento della rete dei Cpr a cui il governo Meloni potrebbe ora dare attuazione.

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A oggi sono 10 quelli in funzione: Bari, Brindisi, Caltanissetta, Gradisca d’Isonzo (Gorizia), Macomer (Nuoro), Palazzo San Gervasio (Potenza), Ponte Galeria (Roma), Torino, Trapani, Milano. Al 31 dicembre scorso, secondo i dati del Garante nazionale dei detenuti, i posti potenziali erano 1.359. I trattenuti 744. Nel 2020 il tempo massimo di permanenza è stato ridotto a 90 giorni, prorogabili di 30 per chi viene dai (pochi) paesi con cui l’Italia ha accordi di rimpatrio.

C’è un dato che ricorre nelle statistiche ufficiali degli ultimi anni: la metà delle persone che finiscono in un Cpr sono private della libertà senza alcuno scopo, perché non possono essere espulse. Nel 2021 su 5.142 migranti trattenuti ne sono stati espulsi 2.519. Aumentati leggermente quest’anno: al 15 ottobre erano 2.853. È il «fallimento funzionale» dell’approccio securitario all’immigrazione e della detenzione amministrativa.

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Non l’unico, perché il sistema «delle pene senza delitti», come sintetizza un report sul Cpr milanese curato da Gregorio De Falco e rete Mai più Cpr, costituisce un fallimento anche da altri due punti di vista: quello delle tutele giurisdizionali e dei diritti fondamentali che una democrazia dovrebbe garantire senza discriminazioni. Basti pensare che la convalida del trattenimento amministrativo è disposta per i richiedenti asilo dal tribunale civile e per i migranti «irregolari» dal giudice di pace. Magistrati che in nessun altro caso possono privare qualcuno di un bene fondamentale come la libertà personale.

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La stessa detenzione, poi, è sottratta al controllo della magistratura di sorveglianza che ha il compito di valutare tutte le questioni legate ai diritti del detenuto. In un convegno della scorsa settimana il giudice Riccardo De Vito ha definito questa situazione «un vuoto intollerabile». Anche perché, sostiene, nella detenzione amministrativa «i modi mediante i quali le persone sono private della libertà personale non sono disciplinati dalla legge». «Modi» che nel sistema penitenziario fissano i limiti al potere delle autorità.

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Altro unicum nel panorama detentivo italiano è che i Cpr sono strutture gestite da privati. Questo, mostra la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) nello studio Buchi neri, crea una tenaglia intorno alle vite dei trattenuti: lo Stato vuole minimizzare i costi (44 milioni dal 2018), gli enti gestori massimizzare i profitti. Condizioni igieniche terribili, assistenza medica insufficiente, abuso di psicofarmaci, cibo scadente, episodi di autolesionismo sono la regola nei Cpr. «La realizzazione di altri centri non farà che perpetrare lo sperpero di soldi e la sistematica violazione dei diritti umani, senza garantire in alcun modo una gestione del fenomeno migratorio efficace e pragmatica», afferma la Cild.