Dal 2018 a oggi lo Stato italiano ha speso 44 milioni di euro per la detenzione di circa 400 migranti al giorno che non avevano commesso alcun reato. Queste persone sono finite dietro le sbarre dei 10 Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) per essere rimpatriate nel loro paese di origine: nella metà dei casi non è mai avvenuto. I conti, a cui andrebbero aggiunte le spese di manutenzione delle strutture e per la presenza delle forze dell’ordine, li ha fatti la Coalizione italiana libertà e diritti civili (Cild) nel rapporto Buchi neri. La detenzione senza reato nei Cpr. Uno studio monumentale firmato dagli avvocati Federica Borlizzi e Gennaro Santoro che in 293 pagine traccia prima la storia della detenzione amministrativa in Italia, che affonda le radici nel decreto Dini del 1995 e nella legge Turco-Napolitano del 1998, e poi fotografa con dovizia di numeri e dettagli i tanti problemi che il sistema genera dal punto di vista giuridico, economico, funzionale, sanitario.

C’è una dinamica doppia che tende a stritolare le vite di chi finisce in questi luoghi: lo Stato cerca di minimizzare i costi, gli enti gestori di massimizzare i profitti. Nonostante l’ordinamento italiano sia contrario alla privatizzazione delle carceri, infatti, i Cpr sono in mano a privati che hanno l’obiettivo di guadagnare dalla reclusione dei migranti. Nel rapporto si legge come due cooperative che gestiscono tre strutture, la Edeco poi diventata Ekene per Gradisca e la Badia Grande per Bari e fino a poco tempo fa Trapani, siano «attualmente oggetto di importanti inchieste giudiziarie per la mala-gestione di Cpr o centri d’accoglienza». Parallelamente negli ultimi anni il mercato della detenzione ha attirato le mire di vere e proprie multinazionali del settore. Come Gepsa e Ors, che gestiscono i Cpr di Torino e Macomer ma nel corso degli anni hanno avuto appalti anche per Cara, Cas ed ex Cie in diverse regioni italiane. Le loro società madri, Engie Francia e Gruppo Ors con sedi rispettivamente in Francia e Svizzera, sono affermate a livello europeo: la prima fornisce servizi ausiliari in 22 strutture penitenziarie transalpine, la seconda è titolare di centri di accoglienza e trattenimento in Svizzera, Germania, Austria e Italia.

Nel libro degli orrori della detenzione amministrativa, poi, hanno un posto di riguardo i trattamenti sanitari riservati ai trattenuti: esclusi dal servizio sanitario nazionale e offerti da medici convenzionati con gli enti gestori; crollati nel monte ore dal 27,1% al 78% rispetto a prestazioni mediche e psicologiche nel passaggio dal capitolato d’appalto 2017 a quello 2018-2021. Un focus a parte merita l’abuso di psicofarmaci e ansiolitici che riguarda l’80% dei migranti a Milano, il 65-70% a Roma e il 70% a Gradisca. Questi delicati prodotti sono gestiti da infermieri e psicologi incaricati dall’ente gestore, non c’è alcun controllo pubblico. «Magari un calmante in più faceva comodo per tenere tutti tranquilli», ha raccontato un’ex operatrice della struttura di Gradisca. «C’è il rischio di piegare il trattamento farmacologico a inaccettabili esigenze di disciplinamento», ha affermato Borlizzi nella conferenza stampa di presentazione tenutasi ieri al Senato.

Tra gli interventi anche quello del senatore Gregorio De Falco (gruppo misto) che ha annunciato la costituzione di una pattuglia di parlamentari che monitorerà costantemente tutte e 10 le strutture. Per il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma i problemi più urgenti sono stabilire una tutela giurisdizionale sui trattenuti nel Cpr e un controllo del Ssn sui servizi sanitari. Palma, però, ha anche ricordato che la strategia complessiva che punta sui rimpatri è da ripensare: lede diritti fondamentali e costa un sacco di soldi. Molto meglio l’integrazione.