Mauro Palma: «Migranti, basta emergenze. Ora bisogna ripensare i Cpr»
Diritti Il Garante dei diritti dei detenuti anticipa la sua relazione annuale al manifesto. «Dietro la parola emergenza si nasconde l’incapacità di affrontare il fenomeno con una politica forte, non nel senso di dura ma di solida democraticamente»
Diritti Il Garante dei diritti dei detenuti anticipa la sua relazione annuale al manifesto. «Dietro la parola emergenza si nasconde l’incapacità di affrontare il fenomeno con una politica forte, non nel senso di dura ma di solida democraticamente»
Il prossimo 20 giugno il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale (Gnpl) presenterà la sesta Relazione annuale al parlamento. Mauro Palma, presidente dell’organismo collegiale, anticipa al manifesto i temi riguardanti i diritti delle persone migranti.
Nel suo lavoro pone sempre molta attenzione alle parole, soprattutto quelle pronunciate dal potere. Nei passaggi della Relazione 2022 sulle politiche migratorie ne sottolinea tre: solidarietà, emergenza, eccezionalità. Perché?
La nostra Costituzione richiama subito la parola «solidarietà», mentre non dice mai «emergenza» e usa solo due volte «eccezionalità», ma come aggettivo. All’articolo 13 e 81, per i casi eccezionali di limitazione della libertà personale e per quelli di indebitamento dello Stato. Questo impianto mi pare contrario all’abitudine consolidata sui migranti. Si dice che il loro arrivo è un’emergenza, ma si tratta di una questione strutturale. Dietro la parola emergenza si nasconde l’incapacità di affrontare il fenomeno con una politica forte, non nel senso di dura ma di solida democraticamente.
L’Italia spende più in trattenimenti e rimpatri che in accoglienza?
Sì, ma ovviamente in termini percentuali, di frequenza relativa non assoluta. Qualche anno fa la Corte dei conti scrisse che si era rovesciato il rapporto tra spese per accogliere e per respingere. In termini soggettivi pesano più le seconde.
L’obiettivo della detenzione amministrativa dei migranti è il rimpatrio, ma i dati del 2021 confermano che nella metà dei casi non avviene. Il legislatore potrebbe evitare questa privazione della libertà senza scopo?
Dovrebbe. Perché la direttiva Ue 115 del 2008, che alcuni definirono «della vergogna», aveva aumentato la possibilità di trattenere le persone ma anche affermato che quando non c’è più una «prospettiva ragionevole» di rimpatrio la privazione della libertà diventa una misura non giustificata. Questo aspetto credo vada esteso: siccome la libertà è un bene fondamentale qualcuno può esserne privato solo sulla base di una determinata finalità. Se non c’è, per esempio perché non esistono accordi di rimpatrio con lo Stato d’origine o i voli sono sospesi per il Covid-19, il trattenimento perde la ragione che lo giustifica.
È possibile chiudere i Cpr?
Vanno totalmente ripensati. Quando le persone non hanno diritto a stare sul territorio ed è accertato un rischio effettivo per la sicurezza si deve procedere al rimpatrio. Ma serve un chiaro accertamento e una precisa motivazione. La persona non è riassumibile in un momento. Vanno indagate le cause dell’irregolarità. Comunque i luoghi di attesa dell’eventuale rimpatrio non possono essere gli inutili contenitori che abbiamo oggi.
State lavorando a un report sulle «strutture idonee». Cosa sono?
Quando non c’è disponibilità nei Cpr o ci sono difficoltà con le persone da rimpatriare è possibile trattenerle in locali o strutture idonee delle questure. Questa possibilità è stata introdotta nel 2018 dall’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini. All’inizio ho criticato questa scelta: non si capiva cosa fossero e dove si trovassero. Nel 2020 la titolare del Viminale Luciana Lamorgese ha dato una strutturazione e delle regole a questi luoghi, riportandoli alla controllabilità. È stata definita una mappa e quali devono essere le loro caratteristiche. La Ue è intervenuta con un finanziamento per adeguarle. Adesso stiamo cominciando a visitarle. Tra quelle pronte e quelle in ristrutturazione sono in tutto 44.
Due mesi dopo la fine dello stato di emergenza le navi quarantena hanno smesso di operare. Che giudizio ne dà?
Dal punto di vista logistico e di primo accudimento sono state migliori degli affollatissimi hotspot. Da quello psicologico rimane la difficoltà del non approdo, che incide su persone che arrivano dal mare. In termini di diritti le ho dichiarate insufficienti: il personale della Croce rossa non aveva la formazione necessaria. Temevo diventassero una soluzione stabile per cui recentemente ho detto: piantiamola con le navi quarantena. Se sono accettabili in un momento particolare, non possono diventare permanenti.
Così non c’è il rischio che l’hotspot di Lampedusa sia perennemente sovraffollato? Nella prima settimana senza navi quarantena sono sbarcate 960 persone e i trasferimenti con i traghetti di linea vanno a rilento.
È vero, questo rischio esiste. Ma non ci si può far prendere di sorpresa ogni volta. Non è che siccome non siamo in grado di gestire gli hotspot dobbiamo avere le navi quarantena. Non è accettabile. In questi giorni a Lampedusa c’è una situazione quasi invivibile, ma dobbiamo pensare altre modalità. Chiamare a responsabilità, oltre all’Europa come si fa sempre, le regioni. Non è pensabile che ricada tutto su due-tre regioni meridionali.
Dopo Salvini alle navi Ong non sono più stati negati i porti, ma ogni volta si ripete la stessa routine: richieste ripetute, ritardi più o meno lunghi e uno stillicidio di evacuazioni mediche. Come in queste ore dalla Sea-Watch 3. Prima dell’attuale legislatura non accadeva. Queste attese in mare sono accettabili?
In linea generale, di principio, non sono accettabili. Ma nel concreto sono comprensibili. Nel diritto vissuto succede. Il problema è che devono essere considerate eccezionali e non possono ripetersi.
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