Ma vie ma gueule, il titolo prima di tutto. È qui che comincia a vivere il personaggio di questa storia, Barberie Bichette, detta Barbie, in crisi costante, o forse in un momento di passaggio, affaticata anche da quel soprannome che è così pesante da portare. Tutto è complicato anche da trovare davanti allo schermo, Barbie cerca i caratteri giusti per il suo titolo, né troppo diritti né troppo inclinati. Ma vie ma gueule, il settimo e ultimo film di Sophie Fillières, è il ritratto di una donna e delle sue fatiche quotidiane per stare nel mondo, tracciato senza imbarazzi, nel quale si intreccia l’autoritratto della regista a cui il personaggio di Barbie – magnificamente reso da Agnès Jaoui – rimanda. In quest’autofinzione che gioca coi dettagli della vita e della morte, pronta quest’ultima sempre a irrompere nella scena, l’autrice si manifesta ovunque: nei rapporti coi due figli, la sorella maggiore e il ragazzo più giovane, nel lavoro, nei legami famgliari. Semina indizi molto riconoscibili e però nella distanza narrativa si prende la piena libertà di giocare con sé stessa per inventarsi.

Sophie Fillières è morta lo scorso luglio alla fine delle riprese affidando i materiali del film ai suoi due figli, Agathe Bonitzer, attrice e regista, e Adam Bonitzer, regista, che lo hanno terminato affiancando nel montaggio François Quiqueré – col quale la madre aveva già iniziato a lavorare.

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Addio a Sophie Fillières, regista fuori dagli schemiLa Quinzaine des cinéastes lo ha voluto come film di apertura per la sua edizione 2024, scommettendo su una autrice francese eccentrica nel sistema d’oltralpe, e poco conosciuta internazionalmente, forse proprio per la caratteristica del suo cinema di non legarsi a una tendenza riconoscibile preferendo i bordi dell’invenzione più avventurosa – da Grande Petite a Gentille, Un chat un chat, La Belle et la Belle, Aïe, Arrête ou je continue.

E UN’AVVENTURA è anche questo film, che è commuovente certo ma non nell’idea del lutto, piuttosto per la sua vitalità anche nei passaggi meno tenuti, e in qualche inciampo. È che Fillières e con lei Jaoui trovano un accordo mai retorico a dire di una donna nei suoi gesti più intimi, anche quelli che non si ammetterebbero mai, nel malessere o nelle nevrosi che non hanno un nome o che forse hanno radici antiche, la famiglia, gli abbandoni, la sorella (Valerie Donzelli) che il padre mago le preferiva. Invecchiare e guardarsi in ogni specchio con crescente insoddisfazione, l’inquietudine di non riconoscersi, i ruoli a cui sfuggire, i figli e l’amore complicato, infiniti frammenti di un reale che si compongono e scompongono nel movimento della protagonista.

E allora chi è Barbie? Poeta, scrittrice, creativa pubblicitaria. Vive insieme al figlio Junior (Edouard Sulpice), ha uno psicanalista che non le dà mai alcuna soddisfazione e che lei cerca invano di scuotere dalla sua laconicità. Con la figlia Rose (Angelina Woreth) il rapporto è catastrofico, la ragazza preferisce stare dal padre, e la volta che per caso coglie le conversazioni fra lei e l’amica scopre che la giudica in modo terribile – «Chi la vorrebbe più» chiosa crudele. A Barbie piace scrivere poesie, meglio se su grandi fogli, vagare sul metrò ascoltando qualche conversazione, non riesce a dire no e si sente calpestata per eccesso di gentilezza o per senso di colpa, chi lo sa. Ma come non comprendere e pure riconoscere le sue ansie e quel bisogno di cercarsi, che tanto spaventa, o mette a disagio. Per lei questa fragilità è sovraesposta e le capita di cadere. È drammatico ma sempre con l’umorismo lieve di chi sa ancora guardarsi e sorridere, nonostante tutto. Eccoci allora sui passi dei suoi vagabondaggi, flanerie reali o immaginate nelle quali incontriamo un artista noto (Philippe Katerine) e un amico dell’adolescenza, forse fidanzato, che lei però ha rimosso (Laurent Capelluto).

PIF, PAF, YOUKOU! La struttura comica della narrazione è scandita da queste tre onomatopeiche, con una crisi al centro, quel «paf» di quando Barbie viene ricoverata in psichiatria. In questo viaggio dentro a un’esistenza, che mescola tante suggestioni con tenerezza, le cose non accadono mai in modo lineare, in fondo siamo davanti a un enigma che è quello di ogni vissuto. E non c’è un a progressione se non quella di cercare nuove tracce, di seguire piste possibili un po’ folli, a loro modo giocose, di guardare il dolore anche quando fa troppo male, e di arrivare alla fine e poi di nuovo all’inizio come in una fantasia o un’allucinazione dove da Barbie tutti diventeranno «Fanfan», medici, infermieri, psichiatri nel suo ricovero in ospedale fino a ritrovare i nomi di ciascuno, come segno di una ritorno al mondo. Lei, il personaggio che, come ha detto la regista «non sono io ma è un modo per mettere lo spettatore davanti a uno specchio», cammina su un bordo, in equilibri complessi che cercano di ingannare la morte, il crollo, le paure. Lo fa con coraggio e con tenacia, lotta come può contro il tempo e le solitudini.

Fughe, acrobazie, parole che si moltiplicano e perdono il senso di sé ma forse ne acquistano uno nuovo. È un po’ ciò che accade col cinema che può reinventare i mondi. E qui, in questo ritratto di donna – nella giornata di ieri piena di personaggi femminili – si scopre sempre qualcosa anche nei dettagli più piccoli. I legami, l’amore sono come caleidoscopi, che alla rabbia incastrano complicità e tenerezza. Può capitare di tornare sulle orme dell’adolescenza, e di esserne terrorizzati alla follia, di lasciarsi prendere da una malinconia mai sopita, di incontrare di nuovo qualcuno che è ugualmente alla ricerca. Di un orizzonte, di una stella, della vitalità per condividere qualcosa di imprevisto.