Visioni

«Ma vie ma gueule», ritratto autentico di donna

«Ma vie ma gueule», ritratto autentico di donnaScena da «Ma vie ma gueule» di Sophie Fillières

Cannes 77 Il film postumo di Sophie Fillières ha aperto la Quinzaine des cinéastes, in una giornata al femminile. Agnès Jaoui è Barbie, a cui piace vagabondare e scrivere poesie. Un gioco di specchi con la biografia della regista, la morte e la vitalità, l’umorismo per reinventarsi

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 16 maggio 2024

Ma vie ma gueule, il titolo prima di tutto. È qui che comincia a vivere il personaggio di questa storia, Barberie Bichette, detta Barbie, in crisi costante, o forse in un momento di passaggio, affaticata anche da quel soprannome che è così pesante da portare. Tutto è complicato anche da trovare davanti allo schermo, Barbie cerca i caratteri giusti per il suo titolo, né troppo diritti né troppo inclinati. Ma vie ma gueule, il settimo e ultimo film di Sophie Fillières, è il ritratto di una donna e delle sue fatiche quotidiane per stare nel mondo, tracciato senza imbarazzi, nel quale si intreccia l’autoritratto della regista a cui il personaggio di Barbie – magnificamente reso da Agnès Jaoui – rimanda. In quest’autofinzione che gioca coi dettagli della vita e della morte, pronta quest’ultima sempre a irrompere nella scena, l’autrice si manifesta ovunque: nei rapporti coi due figli, la sorella maggiore e il ragazzo più giovane, nel lavoro, nei legami famgliari. Semina indizi molto riconoscibili e però nella distanza narrativa si prende la piena libertà di giocare con sé stessa per inventarsi.

Sophie Fillières è morta lo scorso luglio alla fine delle riprese affidando i materiali del film ai suoi due figli, Agathe Bonitzer, attrice e regista, e Adam Bonitzer, regista, che lo hanno terminato affiancando nel montaggio François Quiqueré – col quale la madre aveva già iniziato a lavorare.

La Quinzaine des cinéastes lo ha voluto come film di apertura per la sua edizione 2024, scommettendo su una autrice francese eccentrica nel sistema d’oltralpe, e poco conosciuta internazionalmente, forse proprio per la caratteristica del suo cinema di non legarsi a una tendenza riconoscibile preferendo i bordi dell’invenzione più avventurosa – da Grande Petite a Gentille, Un chat un chat, La Belle et la Belle, Aïe, Arrête ou je continue.

E UN’AVVENTURA è anche questo film, che è commuovente certo ma non nell’idea del lutto, piuttosto per la sua vitalità anche nei passaggi meno tenuti, e in qualche inciampo. È che Fillières e con lei Jaoui trovano un accordo mai retorico a dire di una donna nei suoi gesti più intimi, anche quelli che non si ammetterebbero mai, nel malessere o nelle nevrosi che non hanno un nome o che forse hanno radici antiche, la famiglia, gli abbandoni, la sorella (Valerie Donzelli) che il padre mago le preferiva. Invecchiare e guardarsi in ogni specchio con crescente insoddisfazione, l’inquietudine di non riconoscersi, i ruoli a cui sfuggire, i figli e l’amore complicato, infiniti frammenti di un reale che si compongono e scompongono nel movimento della protagonista.

E allora chi è Barbie? Poeta, scrittrice, creativa pubblicitaria. Vive insieme al figlio Junior (Edouard Sulpice), ha uno psicanalista che non le dà mai alcuna soddisfazione e che lei cerca invano di scuotere dalla sua laconicità. Con la figlia Rose (Angelina Woreth) il rapporto è catastrofico, la ragazza preferisce stare dal padre, e la volta che per caso coglie le conversazioni fra lei e l’amica scopre che la giudica in modo terribile – «Chi la vorrebbe più» chiosa crudele. A Barbie piace scrivere poesie, meglio se su grandi fogli, vagare sul metrò ascoltando qualche conversazione, non riesce a dire no e si sente calpestata per eccesso di gentilezza o per senso di colpa, chi lo sa. Ma come non comprendere e pure riconoscere le sue ansie e quel bisogno di cercarsi, che tanto spaventa, o mette a disagio. Per lei questa fragilità è sovraesposta e le capita di cadere. È drammatico ma sempre con l’umorismo lieve di chi sa ancora guardarsi e sorridere, nonostante tutto. Eccoci allora sui passi dei suoi vagabondaggi, flanerie reali o immaginate nelle quali incontriamo un artista noto (Philippe Katerine) e un amico dell’adolescenza, forse fidanzato, che lei però ha rimosso (Laurent Capelluto).

PIF, PAF, YOUKOU! La struttura comica della narrazione è scandita da queste tre onomatopeiche, con una crisi al centro, quel «paf» di quando Barbie viene ricoverata in psichiatria. In questo viaggio dentro a un’esistenza, che mescola tante suggestioni con tenerezza, le cose non accadono mai in modo lineare, in fondo siamo davanti a un enigma che è quello di ogni vissuto. E non c’è un a progressione se non quella di cercare nuove tracce, di seguire piste possibili un po’ folli, a loro modo giocose, di guardare il dolore anche quando fa troppo male, e di arrivare alla fine e poi di nuovo all’inizio come in una fantasia o un’allucinazione dove da Barbie tutti diventeranno «Fanfan», medici, infermieri, psichiatri nel suo ricovero in ospedale fino a ritrovare i nomi di ciascuno, come segno di una ritorno al mondo. Lei, il personaggio che, come ha detto la regista «non sono io ma è un modo per mettere lo spettatore davanti a uno specchio», cammina su un bordo, in equilibri complessi che cercano di ingannare la morte, il crollo, le paure. Lo fa con coraggio e con tenacia, lotta come può contro il tempo e le solitudini.

Fughe, acrobazie, parole che si moltiplicano e perdono il senso di sé ma forse ne acquistano uno nuovo. È un po’ ciò che accade col cinema che può reinventare i mondi. E qui, in questo ritratto di donna – nella giornata di ieri piena di personaggi femminili – si scopre sempre qualcosa anche nei dettagli più piccoli. I legami, l’amore sono come caleidoscopi, che alla rabbia incastrano complicità e tenerezza. Può capitare di tornare sulle orme dell’adolescenza, e di esserne terrorizzati alla follia, di lasciarsi prendere da una malinconia mai sopita, di incontrare di nuovo qualcuno che è ugualmente alla ricerca. Di un orizzonte, di una stella, della vitalità per condividere qualcosa di imprevisto.

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