Visioni

«Miséricorde», Guiraudie in un bosco di ipocrisia e desiderio

«Miséricorde», Guiraudie in un bosco di ipocrisia e desiderioUna scena da «Miséricorde»

Cannes 77 Il regista francese torna sulla Croisette dopo otto anni, in Cannes Première, attraversando con umorismo polar e melodramma. Jeremie torna al villaggio di Saint Martial per salutare il panettiere, suo ex padrone di lavoro morto

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 26 maggio 2024

Miséricorde inizia con un funerale e con un ritorno, quello del giovane protagonista, Jeremie (Felix Kysyl) nel villaggio di Saint Martial per salutare il morto che era stato il suo datore di lavoro alla panetteria. A accoglierlo la moglie di quest’ultimo, Martine (Catherine Frot) e il loro figlio (Jean-Baptiste Durand) suo amico nell’adolescenza, che appare però ambivalente nei suoi confronti come se covasse un antico rancore. Alain Guiraudie dispiega sin dalle prime sequenze le forze in campo di questo suo nuovo racconto intorno al desiderio e alle sue variazioni che toccano una gamma infinita di sentimenti, gelosia, possesso, controllo. Sentimenti non reciproci declinati nei bordi della loro ambiguità. Chi è dunque Jeremie, silenzioso, gentile, che sembra celare qualcosa, strana figura accordata e insieme dissonante col resto? E cosa lo lega al morto? Le geometrie delle relazioni sono variabili e non si deve sottovalutare il caso, qui rappresentato dal prete, che nella progressione degli accadimenti, quando tutto sembra precipitare, si fa intervento più umano che divino, convocando nella narrazione le questioni di «delitto» e «castigo» in rapporto ai singoli e all’indifferenza collettiva di fronte alle atrocità del mondo. È che nella messinscena di Guiraudie sono gli slittamenti a produrre senso, i dubbi prima che le certezze: tutto è scritto, segue una linea narrativa precisa e insieme si pone su un costante precipizio che senza espedienti o virtuosismi inutili sa essere bellezza e nei dettagli minimi, quali bere un pastis in cucina o raccogliere funghi, moltiplica le sue piste.

PRESENTATO in Cannes Première – otto anni dopo l’ultima volta del regista sulla Croisette con Rester vertical nel 2016 – questo magnifico film, che tesse a distanza una corrispondenza a distanza col suo romanzo Rabalaïre (2021), conferma la potenza di un cinema che pone lo sguardo sul mondo senza dogmi né spettacolarizzazioni del superfluo, che cerca con ostinazione (ancora) il piacere del suo inventarsi, che è politico al di là (o al di qua) dell’aria del tempo. Chissà se è questo che ha spinto a non metterlo in concorso, nonostante una qualità assai più alta dei film francesi che invece vi erano – vedi L’amour ouf uno dei titoli più inutili della competizione privo persino della statura pop che poteva farne un dirty pleasure. O a tutti quelli permeati anche nei risultati migliori di una esibizione del proprio «contenuto» coi temi obbligati del momento. Una virata che è passata anche alla lente critica apparsa in questa edizione del festival polarizzata come non mai nel modello social – capolavoro/nullo – lasciandosi portare, almeno stando alle stelle ai film in gara, da involucri vuoti, esercizietti maldigeriti/indigesti sul genere, quali La fille a l’aguille del danese Von Horne, The Substance o Emilia Perez, il «musical queer» di Audiard che nelle canzonette sulla fluidità pare la parodia di Preciado. Si è persino arrivati a giustificare le proprie scelte – vedi «Libération» dopo avere esaltato L’amour ouf e dato il «sacco di carbone» al sublime Grand Tour di Gomes. Strani tempi davvero.

Miséricorde dunque, che è anch’esso una storia d’amore o di amori impossibili, segreti spaventosi – nel senso che fanno paura – rivelatori di maschere e ipocrisie il cui movimento si svolge nella luce dell’autunno fra il villaggio, la chiesa, il bosco, quest’ultimo il luogo in cui si consumano gli atti segreti e quel groviglio di violente reazioni che il protagonista prolungando la sua permanenza ha messo in moto. È un teatro dell’anima come sempre in Guiraudie e dei suoi détour, quello del cinema come della vita polarizzati qui da questa presenza estranea eppure familiare, provocazione angelo o enigma – discendente lontano del Teorema pasoliniano capovolto nello spazio senza orizzonte di una campagna abbandonata che non ha più neppure il fornaio e pulsa di frustrazioni, e di tensioni erotiche lasciate fluttuare senza mai giungere a compimento – Walter, il contadino, imbraccia il fucile quando Jeremie gli compare davanti nelle mutande larghissime prestate dalla vedova del panettiere nel concretizzarsi di una remota possibile attrazione, dopo qualche bicchiere bevuto insieme.

FANTASMI, fantsmagorie, proiezioni: un gioco di specchi che fluttua con la leggerezza e l’umorismo speciale del cineasta fra generi cinematografici – polar, melodramma – e umani. Su cui si alza la voce di «misercordia» di quel curato di campagna bressoniano nella sua solitudine (amorosa), unico respinto dal ragazzo che invece è macchina di seduzione con chiunque, in questo universo guiraduiano che ancora una volta è vertigine del mondo.

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