«Ricordo che mentre le filmavamo ci chiedevamo, stiamo assistendo alle loro vite o a uno spettacolo? La loro arte è così urgente perché tratta di come sfidare la società nel momento presente». Il riferimento è alle ragazze della compagnia di teatro di strada Panorama El Barsha e a parlare è Nada Riyadh, regista egiziana che insieme al compagno Ayman El Amir ha realizzato The Brink of Dreams. Presentato alla Semaine de la critique a Cannes, il film ha vinto L’Oeil d’or, il premio per il miglior documentario, ex aequo con Ernest Cole, Lost and found di Raoul Peck dedicato al fotografo che per primo espose gli orrori dell’apartheid in Sud Africa. I premiati di quest’anno abbracciano dunque i due estremi del continente, ma The Brink of Dreams non mostra certo il «solito» Egitto.

Nada Riyadh e Ayman El Amir

«MOLTI DEI FILM mainstream egiziani attuali parlano di persone di classi sociali elevate, al Cairo o ad Alessandria, che passano la loro vita al centro commerciale. La maggior parte della popolazione nel Paese non vive così, quindi la questione della rappresentazione è molto importante, e credo sia diritto delle ragazze di vedere se stesse e persone come loro sullo schermo» afferma Ayman El Amir quando ci incontriamo sulla Croisette per parlare del film.

Ciò che colpisce di più in The Brink of Dreams è come nella pratica di Panorama El Barsha – e El Barsha è il nome del villaggio in cui tutto accade – si intrecciano questioni sociali, artistiche e personali relative alle vite delle ragazze, e in particolare alle reazioni delle famiglie e dei partner, spesso davvero poco concilianti, rispetto alla scelta di aderire ad un percorso così eccentrico per un remoto abitato rurale. «Non penso che l’arte possa essere separata dal contesto sociale. E non è un caso che nelle loro performance le ragazze parlino di matrimoni combinati, di violenza domestica, e di altri argomenti che vengono dalla loro esperienza. La domanda, a questo punto, diventa: che cosa è definibile come arte? Abbiamo incontrato un consulente quando stavamo ancora sviluppando il film che sosteneva che quella di Panorama El Barsha non è arte. È caotica, è per la strada, è improvvisata. Certo, ma non è questo il punto. Loro non vogliono mica recitare all’opera, vogliono stare nella società per cambiarla attraverso l’arte. Il teatro, per loro, è un mezzo di sopravvivenza, non un hobby per il tempo libero» afferma El Amir.
Mentre vediamo le ragazze provare, e poi portare i loro spettacoli per strada – rimane impresso The Bus, una sorta di metafora beckettiana sui sogni delle giovani la cui realizzazione si continua ad aspettare invano – risulta ancora più incredibile se pensiamo che non hanno mai avuto accesso ad alcun teatro vero e proprio né tanto meno ad alcuna scuola di formazione.

«NON SAPEVANO che il teatro di strada esistesse, all’inizio. Si vedevano nelle loro case, facevano delle prove, e dopo un po’ hanno sentito di avere qualcosa da mostrare. Così hanno affittato un piccolo spazio nel villaggio, ma quasi nessuno veniva a vederle. E allora hanno semplicemente deciso di andare fuori e far vedere ciò che stavano facendo. È un modo molto istintivo e organico di essere artiste» afferma Nada Riyadh. Le influenze, quindi, non possono che provenire dal contesto in cui le giovani sono cresciute. Prosegue la regista: «Si ispirano all’eredità culturale del Sud: c’è molto folk, canzoni, favole, stili che derivano dalla storia della regione. Per noi è un mix davvero interessante perché utilizzano modelli ritenuti rigidi e tradizionali cambiandone di senso, così da diventare una critica a ciò che le opprime».

Le riprese di The Brink of Dreams sono durate ben quattro anni, durante i quali Riyadh e El Amir hanno seguito le giovani tanto per le strade del paese quanto nei loro contesti famigliari. Come racconta il regista: «Le abbiamo incontrate la prima volta nel 2017 e ci siamo detti: siamo testimoni di un piccolo miracolo. Interagivano con i passanti e non tutte le reazioni erano positive, eppure loro erano davvero resilienti. Ci hanno poi invitati per proiettare il nostro primo documentario, Happily Ever After. Vederlo ha aperto loro un orizzonte su come esprimersi attraverso il cinema. Ma poi hanno iniziato a presentarci ai genitori, alle famiglie, ai partner. Così siamo entrati a far parte della loro “bolla” e abbiamo potuto filmare la loro intimità, il coraggio, lo humor. E per farlo non possono certo bastare una o due settimane».