Payal Kapadia parla veloce, sorride spesso, è felice anche se stanchissima. Il suo All We Imagine is Light arrivato quasi alla fine del Festival, riportando l’India in competizione sulla Croisette dopo trent’anni, si è subito inserito a pieno titolo nel Palmarés. Lei, Payal, che a Cannes aveva già presentato, alla Quinzaine, e con molto successo il precedente A Night of Knowing Nothing (2021), è anche la prima regista donna indiana a competere per la Palma. Dice: «Mi chiedono spesso se è molto difficile per le registe donne lavorare in India, credo che lo sia ovunque, basta guardarsi intorno, persino qui, al festival, il numero delle registe è molto più basso». Lei ha studiato cinema nel suo Paese crescendo col cinema indiano, le Nouvelle Vague, i grandi classici sovietici – «la mia famiglia mi ha supportata, è un grande privilegio» – e vive a Mumbai la città che racconta il film attraverso le vite delle tre donne protagoniste le cui esistenze si intrecciano e si fondono a dichiarare una resistenza femminile di complicità e di rivolta. «In un certo senso queste tre figure rappresentano anche una forma di continuità, come se fossero i tre diversi aspetti di una donna in più passaggi della sua esistenza. Il movimento del film è un viaggio, geografico ma soprattutto emozionale nel quale si confrontano tre generazioni. La figura di Prabha, l’infermiera, è una tipologia femminile molto presente nella società indiana, che vive cioè un processo un po’ ossessivo rispetto alle proprie esperienze. Per questo ho voluto mettere al centro l’amicizia, in una realtà quale è quella di oggi, così dura e violenta, è fondamentale potersi sostenere reciprocamente».
All We Imagine as Light utilizza diverse forme mescolando immagini di vita quotidiana a quelle della narrazione: «Volevo un aspetto non di fiction per restituire la dimensione di Mumbai, che è una città molto difficile da vivere, specie negli ultimi anni, e i cui ritmi sono scanditi dai monsoni. Mi fanno ridere gli allerta meteo qui, se ci fossero piogge come da noi cosa direbbero? (ride, ndr). Ho cercato di restituire quel sentimento che pervade la città durante il monsone, la luce che può essere bellissima, il suo respiro bellissimo un respiro ma anche terribile. Mumbai è estremamente popolata, la gentrificazione è sempre più rapida».

Quanto è difficile produrre un film come questo in India?

Ho avuto la coproduzione francese – la post e il montaggio sono stati fatti a Parigi – adesso i fondi per il cinema indipendente si sono assottigliati, anche se esistono ancora dei fondi speciali per le donne. Ma anche questa è una situazione piuttosto comune nel resto del mondo per chi fa cinema indipendente. Dell’India si conosce ovunque Bollywood ma l’India produce molti buoni film, e ogni stato ha la sua industria e ci sono registi di grande talento.Spero che dopo il mio film per tornare in concorso a Cannes non dovremo aspettare altri trent’anni.

Le tre protagoniste nelle loro storie riflettono quelli che sono alcune delle conflittualità centrali nella società indiana, la differenza di caste, i rapporti fra religioni, in una lente che è quella delle donne.

La relazione col contesto è qualcosa che riguarda per prima me, come regista, fare film è anche un mezzo per confrontarmi con il mondo che ho intorno. Ho voluto tre personaggi femminili autonomi dal punto di vista economico che è la prima cosa per affermare la propria indipendenza, quando si parla di femminismo. Ho cercato di mantenere nel racconto i riferimenti alla realtà – fondamentali a mio parere – portandoli dentro senza sottolineature, in modo fluido, per far sì che dialogassero con la dimensione più narrativa.

La storia d’amore difficile della ragazza più giovane che è di religione hindu col ragazzo musulmano suggerisce una frattura piuttosto radicale nella società di oggi.

La situazione delle coppie interreligiose è sempre più difficile, ma la questione rimanda sempre alla divisione fra caste. La prima cosa è proteggere la purezza della casta, una ragazza che sposa un uomo non della sua casta, disonora la sua famiglia che la rifiuterà per sempre. All’interno di questa rigida politica della conservazione di uno status quo si inscrive anche il blocco ai rapporti tra diverse religioni. Purtroppo è una tema molto serio in India.

Il film è diviso in due parti, a quella a Mumbai segue la seconda al mare, dove le donne trovano infine un nuovo equilibrio con sé stesse. Perché lì e non altrove?

Intanto perché hanno più tempo per sé, i ritmi a Mumbai sono frenetici mentre al mare il tempo ha un altro ritmo. Ho scelto quella regione che è Ratnagiri, tra Goa e Mumbai, circa sei ore di distanza, perché da lì sono arrivati i lavoratori nelle fabbriche tessili di cotone a Mumbai, che due anni dopo il più grande sciopero mai visto nel Paese, chiusero negli anni ’80. Allora si decise che un terzo degli edifici sarebbe stato dato ai lavoratori che vi abitavano. Ma la maggior parte di loro è stata derubata e ha perso la casa… L’intera area è stata trasformata, ci sono ancora alcune vecchie ciminiere; il resto sono centri commerciali di lusso, piste da bowling, complessi residenziali ultra-sicuri… Ma gli ex operai e i loro figli stanno ancora lottando per riavere ciò che gli spetta, e c’è stata persino una ripresa del movimento mentre giravamo. Abbiamo fatto molte ricerche, abbiamo partecipato alle loro riunioni e per me era importante mostrarlo, dunque scegliere quella zona era un modo per costruire una connessione.