Payal Kapadia con il Gran Prix, foto Ansa

Sean Baker ha dedicato la Palma alle sex worker come la protagonista di Anora, il vincitore di questa edizione 77 un po’ a sorpresa – l’ultimo film americano a vincerla era stato  nel 2011  The Tree of  Life di  Terrence Malick  – con le previsioni che davano il riconoscimento a The Seed of The Sacred Fig di Rasoulof, fuggito clandestinamente dall’Iran dopo la nuova condanna a sei anni di prigione. Non è la prima delle sorprese di questo Palmarés, che tra i momenti più emozionanti annovera la lunghissima standing ovation in sala per George Lucas, Palma d’onore consegnata da Francis Ford Coppola – e la visionarietà commuovente del suo Megalopolis (purtroppo senza alcun riconoscimento come era prevedibile perché troppo fuorinorma) a fine festival appare ancora più preziosa. O l’abbraccio fra le tre attrici e la regista Payal Kapadia, che ha riportato l’India in concorso dopo trent’anni vincendo il Gran Premio della Giuria per il suo magnifico All We Imagine As Light. E che sul palco ha voluto ringraziare i lavoratori e le lavoratrici del Festival in sostegno alla battaglia di Sous les ecrans la déche, il collettivo che sta trattando col governo francese il nuovo contratto di lavoro.

Le scelte della Giuria di Greta Gerwig  – con altre esclusioni imperdonabili, una su tutte Caught by the Tides di Jia Zhang-ke, fra i  più radicali  in gara – se da una parte riflettono la sua composizione assai eterogenea in una certa incoerenza, dall’altra sembrano dialogare con le istanze che hanno caratterizzato l’intera selezione, non solo il concorso, e con la volontà di aprire la «bolla» festivaliera al mondo. Lo afferma in quest’ultimo caso   il Premio speciale della Giuria – istituito per l’occasione  da  Gerwig – a The Seed of the Sacred Fig, divenuto subito il simbolo della lotta contro la repressione del regime iraniano. Nel ritirarlo Rasoulof  ha ricordato come artisti, giornalisti, universitari sono costantemente sotto minaccia, in prigione e rischiano la morte, ringraziando le donne iraniane per il loro coraggio. E, negli altri, quello per la migliore interpretazione femminile  a tutte le interpreti di Emilia Pérez di Jacques Audiard – anche Premio della Giuria – con l’attrice trans Carla Sofia Gascon che ha preso la parola per sottolineare come il cambiamento inizia dal rispetto e dall’eguaglianza.

Il cinema d’autore indipendente più giovane e più inventivo – al cui interno è nata Gerwig – è invece  la cifra su cui probabilmente si è imposto il suo punto di vista,  dalle già citate opere di Kapadia e Baker alla miglior regia per Miguel Gomes e il suo Grand Tour, un regista e un film che mettono al centro il cinema e la sua costante reinvenzione del mondo, insieme all’idea di una creazione collettiva – Gomes ha voluto interpreti e sceneggiatrice sul palco insieme a lui. Che sono poi  i titoli migliori di questo Palmarès nel quale  è chiaro anche come il senso di cinema «politico» rischia sempre di più una semplificazione fra opportunismi fastidiosi – il «queer» milionario (25 milioni di budget) di Audiard o la banalità di The Substance – e una reale necessità che nell’immaginario si confronta con la vita e con la realtà. A cui ci si poteva aprire ancora  un po’ di più magari con una presa di parola su quanto continua a accadere in Palestina e in Israele. Peccato che a parte l’abito di Cate Blanchett sul tappeto rosso – dove pare che il soggetto fosse tabù – non se ne è fatta mai menzione.