«The Seed of the Sacred Fig», l’Iran di oggi e le sue oppressioni
Cannes 77 Mohammed Rasoulof arriva sulla Croisette dopo la fuga dal Paese islamico che lo aveva condannato. L’uccisione di Mahsa Amini, il movimento Donna Vita Libertà, una famiglia che incarna il conflitto
Cannes 77 Mohammed Rasoulof arriva sulla Croisette dopo la fuga dal Paese islamico che lo aveva condannato. L’uccisione di Mahsa Amini, il movimento Donna Vita Libertà, una famiglia che incarna il conflitto
Una standing ovation ha accolto la proiezione ufficiale di The Seed of the Sacred Fig, in concorso per la Palma, con Mohammad Rasoulof che prima sul tappeto rosso, con l’attrice Golshifteh Farahani, e poi in sala teneva fra le mani le fotografie dei suoi attori, Missagh Zareh e Soheila Golestani ai quali le autorità iraniane non hanno permesso di uscire dal Paese. Rasoulof, insieme alla figlia, la stessa che aveva ritirato al suo posto l’Orso d’oro alla Berlinale per Il male non esiste (2020) lasciando poi il Paese, è fuggito dall’Iran attraversando le montagne qualche giorno fa, dopo la condanna a otto anni di prigione.
«NON SOPPORTAVO l’idea di essere nuovamente arrestato, è un’esperienza che ho già vissuto ed è terribile. Non ho subito torture, perché cercano di evitarle con chi ha accesso ai media, ma sono passato attraverso molte violenze come la proibizione per ore di andare in bagno con la conseguente paura di mangiare o di bere. In alcune prigioni invece si è liberi di muoversi ovunque, ma tutto è assurdo. Ho visto tagliare le dita ai ladri con una piccola ghigliottina perché lo impone l’Islam e poi riattaccargliele in ospedale e riportarli in carcere» ha detto il regista in una intervista al quotidiano francese «Le Monde». E la sua presenza a Cannes ha molto irritato il regime iraniano, che lo ha definito «un regista pro-occidentale i cui film screditano l’immagine dell’Iran».
Quel meccanismo assurdo a cui fa riferimento, oltre i limiti di una follia, sembra ispirare The Seed of the Sacred Fig – entrato subito nel palmarès se non nella Palma d’oro – che sin dal titolo riferendosi al Fico sacro, o Ficus religiosa, l’albero la cui cima emerge dal viluppo dei suoi stessi rami che soffocano la pianta ospite, convoca i dolorosi mutamenti attraverso i quali dovranno passare i personaggi. Nel loro microcosmo famigliare sono ciascuno un possibile tipo esemplare di una classe media, a Teheran, oggi. Il padre Iman (Zareh) è stato appena promosso giudice istruttore del tribunale rivoluzionario, è parte del regime: la moglie Najmeh (Golestani) gli sta accanto premurosa, sa nel fondo di sé che ci sono crepe ma preferisce distogliere gli occhi per una lavastoviglie nuova o per un appartamento più grande. Crede alla televisione e all’informazione controllata, le figlie le rimproverano di «cedere sempre al marito». Di lui la donna conosce i lati oscuri che ha sempre celato alle due ragazze, entrambe vicine a quell’Iran che è sceso in piazza contro il regime e che continua a resistere.
E proprio la rivoluzione esplosa dopo l’omicidio di Mahsa Amini è il riferimento principale del film, che a partire dall’attualità costruisce il suo doppio registro: le immagini in rete, filmate dai telefonini, restituiscono la realtà delle manifestazioni e della violentissima repressione, mentre la narrazione della famiglia che ne viene comunque toccata – in modo diverso secondo i ruoli – crea una specie di controcampo nel quale si manifestano appunto le fratture della società.
Non sopportavo l’idea di essere nuovamente arrestato. Spero con tutto il mio cuore che l’apparato oppressivo della dittatura finiscaMohammed RasoulofC’è un «dentro» e c’è un «fuori», Rasoulof si pone sul bordo, illuminando con la sua messinscena i passaggi radicali e le ferite che quell’enorme movimento nel Paese produce fra i suoi protagonisti, e dunque in ciò che rappresentano. Si tratta di una questione morale – come sempre nei suoi film – che riguarda le scelte e la responsabilità del singolo e quella collettiva.
SI PUÒ FARE FINTA di nulla? Si può testardamente come la madre continuare a credere che chi protesta è un sabotatore straniero, secondo le parole del regime, perciò del marito anche quando si è testimoni della falsità di quest’ultimo? Se le proprie figlie vogliono un cambiamento, se l’amica del cuore della maggiore ha perso un occhio per un colpo di flash ball in piena faccia e poi è stata pure arrestata. Se il marito manda a morte ragazzini della loro età senza neppure preoccuparsi delle accuse. Se i video che circolano in rete mostrano una brutalità feroce.
In quell’interno famigliare la geometria dei rapporti profila chiaramente la realtà e le risposte di una repressione che è politica, poliziesca, ma soprattutto può esistere nell’indifferenza o, con ancora più tragicità, nel lavorio di persuasione messo in atto dal regime grazie a un sistema di paura, ricatto, controllo. Man mano che le ragazze prendono sempre più la parola che è quella di chi si batte, il padre/patriarca diventa sempre più paranoico, sente mancargli la terra sotto ai piedi (più di una metafora): non sono le sue figlie ma nemiche, uguali a chi arresta, interroga, tortura, manda a morte.
Tenero e premuroso si manifesta all’improvviso ciò che è un carnefice, che la paura di vacillare rende folle specie quando in casa sparisce la sua pistola, una distrazione che potrebbe compromettere la sua carriera. La madre è nel mezzo: il mondo è cambiato, ripete sempre più spesso riferendosi alle figlie, e il padre replica «Dio no». Non può capire la figlia adolescente che vuole farsi i capelli blu e mettere lo smalto, o la maggiore che ha ventun anni, all’università partecipa alle proteste, e spegne la tv dicendo che sono solo menzogne.
LA MADRE quel potere/patriarcato lo ha introiettato per una vita e non riesce a ribellarsi: si piega e poi si sottrae – delle quattro è la figura più interessante per la sua conflittualità.
Rispetto a Il male non esiste, la necessità di assumere una consapevolezza rispetto al potere, nello spazio privato e in quello pubblico, è qui affermata con una maggiore forza e forse con minore fluidità formale. La violenza del reale, è che il movimento Donna Vita Libertà esplode, spostando di volta in volta la finzione verso il thriller, l’horror, man mano che la verità nelle relazioni si palesa assumendo una forma grottesca o cruda, che interroga al tempo stesso la modalità del fare cinema politico. The Seed of the Sacred Fig è un film simbolicamente importante – e qui sta anche la sua cifra politica – per l’urgenza che esprime, dalla quale a tratti è anche intrappolato. Ma ciò che rappresenta la sua presenza qui, come una possibile vittoria rispetto all’Iran di adesso, va al di là di tutto questo.
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