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Ma quando arrivano i “nostri”?

In una parola

In una parola La rubrica settimanale su linguaggio e società. A cura di Alberto Leiss

Pubblicato più di un anno faEdizione del 27 giugno 2023

Nell’editoriale di domenica Tommaso Di Francesco, tra tante osservazioni condivisibili, scrive a un certo punto qual è la posizione dei “nostri” a proposito della guerra in Ucraina e dello scontro che ha opposto drammaticamente e misteriosamente il capo dei mercenari della Wagner e il capo del Cremlino.
Ma chi sono i “nostri”? Quelli che nei film western di una volta arrivavano, più o meno all’ultimo e suonando la tromba della carica a cavallo, a salvare i soldati blu e i cowboy circondati dai pellerossa?

Noi stavamo già imparando a stare dalla parte proprio degli indiani dipinti come crudeli selvaggi… e oggi dovremmo essere d’accordo con Tommaso che gli unici da considerare “i nostri” nell’atroce conflitto tra Mosca, Kiev, e dentro Mosca, siano i pacifisti russi. Quelli che hanno detto subito di non volersi schierare né con Putin né con Prigozhin. Che affrontano il carcere o si rifugiano all’estero per non dover combattere contro gli ucraini. E con loro anche gli obiettori ucraini e bielorussi, che pure rischiano e patiscono il carcere e altre persecuzioni. E insomma tutti coloro che in tutto il mondo sembrano aver capito che la guerra è una follia, che va sempre rifiutata.

Dire questo non significa, da parte mia, come viene immediatamente rimproverato al “pacifismo”, mettere sullo stesso piano aggressori e aggrediti, né considerare “nemici” quanti la pensano diversamente (per esempio che sia doveroso mandare armi, cosiddette difensive, agli ucraini aggrediti).
Ieri sulla Stampa Domenico Quirico ha parlato di tre milioni di renitenti alla leva in Russia (e leggo altrove con conforto che anche negli Usa l’esercito federale fa fatica a trovare giovani disposti a arruolarsi). Ha poi descritto, o fantasticato, una possibile interpretazione di quanto è successo in Russia sabato scorso: si sarebbe trattato di una gigantesca “messa in scena” addirittura concordata tra Putin e il suo fedele “cuoco” e capo-brigante, al fine di svelare piani eversivi e tradimenti non provenienti dalla fedelissima Wagner, ma da settori o personalità annidate nei cerchi del potere più prossimi al vertice del Cremlino.

Il culmine della “marcia su Mosca” poi interrotta a 200 chilometri dall’obiettivo sarebbe spiegato da settimane e settimane di polemiche quotidiane di Prigozhin non contro Putin, ma contro i generali e i potenti che lo circondano, a cominciare dal ministro della difesa Shoigu e dal capo di stato maggiore Gerasimov. E chi sa chi altri dietro di loro.

Insomma, una fosca macchinazione gestita dallo “Zar”, attanagliato dal sospetto, dal “morbo sacro del dubbio” che “lo tenta perennemente con i suoi fulgori e baratri neri”.

In fondo ci sarebbe del senno in questa follia, forse più che nell’idea che il capo della Wagner potesse davvero credere di guidare una specie di rivoluzione, paragonata dal suo capo, negativamente, nientemeno che all’Ottobre di Lenin.

Chi distingue più, ormai, la realtà dai racconti che ce ne fornisce la megamacchina della cosiddetta informazione? Teleguidata da intelligenze artificiali, e più probabilmente militari, finanziarie, spionistiche?

Sarebbe bello aspettarsi, prima di restare abbagliati dalla tesi complottistica di turno, l’arrivo dei battaglioni dei “nostri”, capaci di illuminarci su come vanno effettivamente le cose del mondo.

Temo che non saremo soccorsi in nessun caso da qualche alleato ben “armato” di idee, informazioni, poteri, capace di risolvere dubbi e indicare soluzioni.
Si può solo provare a ripartire da noi stessi, dai “nostri” sentimenti e dalle “nostre” idee. Sapendo, come ha detto un’amica appena tornata da una visita a Auschwitz, che il male è anche in ognuno di noi.

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