Se le destre europee non usciranno dalle elezioni del nove giugno abbastanza forti da imporre una nuova maggioranza a Bruxelles lo dovremo assai probabilmente all’astensione, la corrente principale dell’euroscetticismo estranea a qualsiasi fantasia nazionalista, disincantata prima ancora che indifferente. L’onda nera e l’euroindifferenza sono i due più macroscopici prodotti di una Unione socialmente debole, politicamente impotente e finanziariamente implacabile.

La cosiddetta Europa delle nazioni, reclamata dalle destre di tutto il continente, avrebbe ben poco da aggiungere al peso che già oggi gli stati nazionali esercitano sull’azione e soprattutto sull’inazione delle politiche europee. Solo sul piano del mercato, della politica monetaria e della difesa della rendita si manifesta qualcosa di simile a un potere impositivo europeo calibrato sugli interessi delle economie più forti e delle élite che le governano. Su un piano, dunque, quello della dottrina e della pratica liberiste, che le destre mostrano di condividere e apprezzare fino in fondo. Finché è il mercato a chiedere e non un’istituzione politica sovranazionale, allora nulla da eccepire.

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Il tema del riarmo, alimentato dalla guerra combattuta sul suolo europeo e assunto in pieno dai più importanti governi d’Europa, rilancia radicate inclinazioni militariste che culminano nella passione per la leva obbligatoria, strumento ben più utile al disciplinamento sociale che alla difesa. E seppure si vagheggi di una futura difesa comune europea sono gli eserciti e le industrie belliche nazionali a profittare del nuovo clima di guerra a venire.

Con il probabile risultato di un continente, vecchio in tutti i sensi, infestato di nazioni armate e “capaci di fare la guerra”, come auspicano i tedeschi per parte loro. E siccome i nazionalismi si trovano, in linea di principio, in competizione fra loro c’è poco da stare allegri. Prima ancora che per la pace, auspicata anche da chi la guerra la fa, è contro il riarmo in tutte le sue forme che converrebbe battersi. Quanto alle malcelate simpatie che circolano nell’estrema destra per la Russia di Putin, (per ragioni opportunistiche o per affinità autoritarie), sarebbero intercambiabili o intrecciabili con analogo apprezzamento nei confronti di Donald Trump che, pur da nazionalista, difficilmente rinuncerà all’egemonia globale e quindi all’attrito con Mosca e Pechino.

Anche sullo smantellamento del diritto d’asilo e sulla chiusura delle frontiere “l’Europa delle nazioni” non potrebbe aggiungere molto alle politiche di brutale respingimento che da Berlino a Parigi, dalla Scandinavia alla Grecia, all’Italia vanno affermandosi sempre più decisamente. Con la deportazione in paesi terzi dei richiedenti asilo, con il costoso affidamento a regimi autoritari della custodia dei migranti siamo a un passo dai sogni più xenofobi della destra estrema.

Ma il vero capolavoro suicidario l’Europa politica lo ha realizzato con l’epopea nera del Green deal. Dopo aver terrorizzato i cittadini dell’Unione con un abbandono coatto delle “cattive abitudini” e l’obbligo di farsi carico dei costi di una riconversione radicale e non più rinviabile, senza però ledere minimamente le grandi produzioni maggiormente responsabili del mutamento climatico, i loro profitti e le sovvenzioni di cui godono, la Commissione guidata da Ursula von der Leyen ha fatto precipitosamente marcia indietro, rivedendo obiettivi e annacquando programmi in ossequio a poteri economici e interessi corporativi. Il Mercato, insomma, proprio verde non è.

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Così, mentre gli attivisti ecologisti vengono marchiati come “ecoterroristi”, la Germania meridionale finisce sott’acqua. A pagare il conto elettorale di questa scomposta ritirata, dicono la logica e i sondaggi, saranno i Grünen che tra deroghe, concessioni e rinvii, con la scusa della crisi bellica, hanno del tutto abdicato alla loro stessa ragion d’essere e, nonostante questo, restano il bersaglio prediletto dello squadrismo neonazista che imputa loro il sabotaggio della restauranda grandezza nazionale.

Dai sondaggi emerge una fotografia assai tetra di quello che fu l’asse franco-tedesco: l’estrema destra francese al 40 per cento; Afd, in Germania, secondo partito davanti alla socialdemocrazia del Cancelliere Scholz. Non è detto che le cose vadano proprio così, ma c’è poco da sperare che le sinistre più o meno moderate, più o meno radicali, riescano non diciamo a ribaltare la situazione, ma neanche a limitare il danno.

Sarebbe già consolante se i voti in fuga dai Verdi, dalla Spd, da Macron confluissero in una astensione (che si prevede molto alta) sorda alle sirene del nazionalismo. Verrà accusata, questa astensione, di essere antieuropea, ma forse sottolinea semplicemente una inaggirabile evidenza: che l’Europa politica, soffocata dalla preminenza dell’interesse nazionale, non esiste ed è proprio questa inesistenza di cui i governi dell’Unione, anche i più europeisti, si sono resi responsabili ad aver fatto gonfiare l’onda nera, talvolta anticipandone in forma più urbana le innominabili intenzioni.