È stato detto molto in tre giorni a Campi Bisenzio. Forse così tanto che se ne esce più confusi di prima. Ma tra la nebbia di pensieri e le emozioni in subbuglio qualche certezza resta.

Intanto c’è stato il primo festival di letteratura in Italia dedicato agli autori e alle autrici della working class. Non male come inizio. L’altra certezza invece è anche una scoperta, a quanto pare le vicende della classe lavoratrice suscitano grande interesse visto che hanno richiamato centinaia di persone in ognuna delle tre giornate, ai cancelli della ex Gkn.

Una terza certezza è che il collettivo di fabbrica ex Gkn è un gruppo dotato di una rara capacità realizzativa e comunicativa. Tanto che viene la tentazione di idealizzarli, mentre li si vede in giro a occuparsi di tutto, spostare tavoli e accogliere persone, servire caffè e parlare ai giornalisti, ridere e bestemmiare. Eppure anche loro sono umani e oltre che forti sono anche stanchi, immersi in una lotta che va avanti senza pause da ventuno mesi, di cui gli ultimi sei senza ricevere più lo stipendio.

La posta in gioco è molto alta e lo si capisce appena si varca la soglia della fabbrica. 40 mila metri quadrati di stabilimento industriale in condizioni perfette. La fabbrica è bella, nessuna crepa, nessuna ruggine, nessun cenno di trascuratezza. L’idea di smantellarla appare priva di logica.

Nella bacheca di vetro che sta al fianco dell’ingresso della mensa è rimasto appeso un avviso: si convoca un’assemblea di reparto per il 29 giugno 2021, solo undici giorni prima che la Melrose, un fondo finanziario britannico, annunciasse con una mail la chiusura e il licenziamento di tutti i dipendenti.

La “fu Gkn”, che ha prodotto per decenni semiassi per autoveicoli, è ferma al 9 luglio 2021 e da allora aspetta invano di riprendere a funzionare.  Come nei film apocalittici, il luogo resta sospeso, ancora palpitante di vita, lasciato indietro da una fuga precipitosa.

La cosa imprevista è che alla Gkn si respira tutt’altro che catastrofe e onorando l’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori, il diritto a svolgere attività culturali e ricreative, gli operai hanno ospitato una rassegna letteraria di grande pregio, con il prezioso contributo della casa editrice Alegre, e grazie soprattutto alle visioni lungimiranti dello scrittore Alberto Prunetti, ideatore e curatore del festival.

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L’evento si è tenuto fuori dall’area produttiva, in una sala enorme, nello spazio dedicato al Cral aziendale (Circoli ricreativi assistenziali dei lavoratori).

Per realizzarlo ci è voluto il supporto di Arci Firenze, il sostegno dei 305 partecipanti al crowdfunding, unica forma di finanziamento dell’evento e le decine di volontari e volontarie che ci hanno lavorato. Vengono ringraziati dal palco durante l’ultimo panel: “Senza di loro nulla sarebbe stato possibile”.

Che cosa è stato quindi questo primo festival di letteratura working class?

Intanto la tre giorni ha generato un tempo nuovo. Non tempo di lavoro, non tempo di puro svago, non militanza, non psicoterapia, ma un tempo fatto di tutto questo insieme. Un tempo squisitamente collettivo. Il pubblico, noi tutti, eravamo sempre vicini, perché tantissimi, anche se lo spazio era grande. Tanto che durante certi applausi, spontanei e forti, pareva quasi di toccarsi.

Ornella De Zordo, docente di letteratura inglese
“Ciò che definisce veramente la letteratura working class non è né la provenienza sociale dell’autore né tantomeno il tema trattato, ma il fatto di essere un’incitazione alla lotta”

Tre giorni per conoscere e per discutere i prodotti culturali della classe lavoratrice, intesa sia come soggetto che come oggetto e come pubblico della letteratura, ma soprattutto intesa come forza trasformativa. Come ha dichiarato la docente di letteratura inglese Ornella De Zordo : “Ciò che definisce veramente la letteratura working class non è né la provenienza sociale dell’autore né tantomeno il tema trattato, ma il fatto di essere un’incitazione alla lotta”.

Il festival ha ruotato intorno alle storie dei lavoratori e del lavoro, nelle sue varie declinazioni, ma il vero tema parallelo, la trama occulta, è stato quello del ripensamento della vita.

Lo si capisce quando Francesca Coin, sociologa del lavoro, dice al microfono “Va bene chiedere più salario ma vogliamo anche lavorare meno, avere tempo per leggere, camminare, amare, vogliamo riprenderci la vita” e la folla esulta come quando si fa gol allo stadio.

Dario Salvetti, operaio dell’ex Gkn, nelle parole dette a conclusione del festival svela il senso, l’importanza della fantasia, per un nuovo immaginario working class: “Narrare serve a uscire dalla concezione economicista delle battaglie sul lavoro, gli operai vogliono monetizzare, giustamente, ma il problema è anche dare un nuovo valore al tempo. Che lo scopo di tutto non sia solo consumare di più. A cosa serve lo stipendio se non a liberare la vita?” e poi ironicamente “Quasi possiamo dire che siamo noi l’unico vero movimento per la vita”.

Dario Salvetti, operaio dell’ex Gkn
“Narrare serve a uscire dalla concezione economicista delle battaglie sul lavoro, gli operai vogliono monetizzare, giustamente, ma il problema è anche dare un nuovo valore al tempo. Che lo scopo di tutto non sia solo consumare di più. A cosa serve lo stipendio se non a liberare la vita? Quasi possiamo dire che siamo noi l’unico vero movimento per la vita”

Durante il panel che vede tra gli ospiti Anthony Cartwright e D. Hunter, due tra le penne più interessanti della letteratura working class inglese, a un certo punto qualcuno dal pubblico fa una domanda: “Ma siamo proprio sicuri che noi operai dobbiamo scrivere solo di povertà, lavoro e fabbrica? Io voglio sentirmi libero di scrivere di qualsiasi cosa”. In poche parole esprime uno dei dilemmi aperti del festival. La classe operaia scrive la sua storia, sicuramente, ma forse può fare anche di più, può raccontare il mondo, tutto, dal suo punto di vista. Ma prima di farlo deve prendere coscienza di sé stessa.

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La coscienza di classe, tema classico, la cui scomparsa nel mondo contemporaneo desta sospetto. Alla base del festival c’è anche questo, lo dice Alberto Prunetti nel discorso di apertura: dagli anni Novanta in poi la classe sociale è sparita dal dal discorso pubblico.

“Ma siamo proprio sicuri che noi operai dobbiamo scrivere solo di povertà, lavoro e fabbrica? Io voglio sentirmi libero di scrivere di qualsiasi cosa”

La frammentazione dei contratti e del mercato del lavoro hanno infranto i meccanismi di identificazione con il proprio ruolo produttivo, il focus si è spostato sul consumo, producendo un’espansione indefinita della classe media, che sembra aver colonizzato tutti gli strati sociali con il suo immaginario.

Cynthia Cruz, poeta americana e autrice di Melanconia di classe (Atlantide), spiega durante il panel con Sarah Gainsforth e Giusi Palomba, che proprio a questa mancata consapevolezza di classe, ancora più forte negli Stati Uniti, è dovuta la melanconia, una sofferenza che a differenza del lutto, ignora i motivi che la causano.

Qualche tratto malinconico lo ha anche il panorama urbano in cui è collocato il festival. Insegne, caseggiati e capannoni, cinti da strade statali, svincoli e diramazioni. Un interregno extra urbano tra Firenze e Prato che alterna attività produttive a qualche complesso residenziale.

La fabbrica ex Gkn fronteggia un enorme centro commerciale. Si chiama “I gigli” ed è uno dei più grandi in Italia.

Tra le due strutture, che si affrontano separate solo dalle ampie corsie di via Fratelli Cervi, avviene in realtà una conversazione silente e perpetua. Sul tetto del centro commerciale campeggia uno striscione che parla alla fabbrica: Solidarietà con i lavoratori della Gkn. Dall’evento letterario in molti attraversano la strada e vanno ai Gigli per usare il bagno o mangiare qualcosa, aggirando le lunghe file del festival. Qualcuno fa il percorso inverso, dal complesso di negozi si affaccia ai cancelli di Gkn incuriosito dal flusso di persone.

Durante tutto il weekend fabbrica e centro commerciale sono attraversati dalla classe lavoratrice. Da una parte sta avvenendo un evento collettivo. Col passare delle ore e il susseguirsi dei dibattiti si fa sempre più tangibile, il sentimento che lega sottilmente organizzatori, ospiti e fruitori.

Dall’altra una folla individualizzata, che privata di luoghi di aggregazione, trascorre il tempo libero in compagnia delle merci, nella maggioranza dei casi senza nemmeno acquistare nulla.

Ai Gigli senza dubbio ci si riposa di più la testa, mentre dall’altro lato della strada si fa anche un po’ fatica con tutte quelle parole, opinioni e quei “come si fa?” sospesi nell’aria.

Da un lato gli oggetti riempiono le vetrine restando in gran parte invenduti. Dall’altro già il sabato pomeriggio Giulio Calella, di edizioni Alegre, va in giro a lamentarsi con il sorriso che “Sono finiti i libri” – “Come scusa?” -“I libri, li abbiamo finiti, li abbiamo venduti tutti, non ce ne sono più”.

Ma se un senso di unione un po’ rétro ha segnato l’atmosfera della tre giorni è emersa parallelamente anche una grande diffidenza verso le semplificazioni anguste di una concezione organica di working class.

D. Hunter, autore venuto alla ribalta con Chav, Solidarietà coatta e di recente in libreria con Tute, traumi e traditori di classe (Alegre), interviene dal palco in maniera schiva e sincera, infrangendo i rigidi codici performativi tipici degli eventi culturali.

Alla domanda “Cosa è per te la solidarietà di classe” dopo diversi minuti di silenzio e con l’espressione imbarazzata risponde: “Per me è la capacità di riconoscere le stratificazioni interne al concetto di working class e di prendersene cura. Saper vedere che da questo lato del mondo non c’è un’unica verità ma una molteplicità di esperienze”.

Claudia Durastanti lo aveva detto già il venerdì pomeriggio, durante il panel di apertura: “Mi sento un po’ a disagio con il concetto di working class, ad esempio la mia è una storia più di marginalità sociale dovuta anche alla disabilità” riferendosi alle vicende raccontate nel suo memoir tradotto in varie lingue, La straniera (La nave di Teseo). Le sue parole danno da subito ossigeno all’evento che infatti sarà un continuo sfuggire al rischio di voler chiudere il cerchio delle definizioni.

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Di cerchi invece se ne aprono tanti e anche molto grandi, come quello della migrazione o quello della sessualità. Ferite aperte nella pelle della classe e non identità confezionate da vendere su instagram.

Il venerdì sera Marte Manca e Filo Sottile hanno raccontato le esperienze delle lotte in fabbrica e sul luogo del lavoro da una prospettiva queer e non binaria. La domenica mattina invece lo scrittore senegalese Pap Khouma ha discusso con Alessandro Portelli e Antonella Bundu i libri (Io, venditore di elefanti per Baldini&Castoldi e Noi, italiani neri per Kanaga Edizioni) in cui racconta l’esperienza da venditore ambulante e quella di decostruzione della solitudine che si imprime sui corpi razzializzati.

Ma sono gli stessi interventi degli operai Gkn a tenere sempre dentro la pluralità delle lotte, in particolare quella ambientalista, non solo per solidarietà ma perché il futuro della fabbrica, elaborato durante questi lunghi mesi di lotta, è pensato dentro un contesto globale, quello dell’emergenza climatica.

Il collettivo di fabbrica insieme a un team di ricercatori della Normale di Pisa e dell’Università di Firenze ha lavorato ad un progetto avanzato di rinconversione industriale, la creazione di una “fabbrica socialmente integrata” che porterebbe lo stabilimento di Campi Bisenzio a produrre pannelli fotovoltaici, cargo bike e batterie con tecniche che hanno un basso impatto ambientale.

Per sostenere questa trasformazione avanguardistica, per cercare un lieto fine non probabile ma possibile, è nato un crowdfunding e ci sono diversi tavoli aperti con le istituzioni comunali e regionali, che alternano apertura e assenza, in attesa di trovare investitori che entrino nel progetto.

C’è che non ci sarà mai un punto finale alla linea, urlano per tre volte gli operai dal palco, nel finale del reading teatrale di Alla linea, il romanzo di Joseph Ponthus. La frase racchiude in poche parole l’infinita ripetizione della catena dello sfruttamento ma anche la storia sempre aperta della working class in lotta.